Mestiere della Supervisione


Flavio Cabrini Flavio Cabrini

Dal volume N° 39

Venditore: quale comprare?

APPROCCI E STRUMENTI PER LA GIUSTA SELEZIONE

AT&T, il colosso statunitense della telefonia, è stata una delle primissime aziende a introdurre fin dagli anni Settanta, nei processi per la selezione del personale, le cosiddette “behavioural interviews”, le interviste comportamentali. Oggi questa tipologia di interviste è ampliamente utilizzata dai reclutatori di tutto il mondo. Un’infinità di studi ha dimostrato che nel 55% dei casi è assolutamente predittiva dei futuri comportamenti su un luogo di lavoro. Le interviste tradizionali, basate per lo più su un approfondimento del curriculum del candidato, sulla sua personalità o sulle sue esperienze (“Mi parli di lei”, una delle domande più classiche e più scontate), risulterebbero predittive soltanto nel 10% dei casi.
Benché di per sé non siano garanzia di prestazione, i comportamenti tenuti in passato e quelli attuali tendono in sostanza a essere ripetuti di fronte al verificarsi di situazioni similari. Di qui l’interesse dei selezionatori a farsi raccontare da un candidato come abbia affrontato e risolto un problema complesso, come si sia organizzato per centrare un obiettivo che si era dato, come abbia maturato una decisione importante, come abbia superato una condizione di stress, come sia riuscito a vincere lo scetticismo altrui circa la bontà di un suo progetto e così via.

Alle interviste comportamentali da qualche anno a questa parte si sono convertiti perfino i selezionatori di Google, un tempo famosi per rivolgere ai candidati domande cervellotiche (del tipo: “Quante palline da golf può contenere uno scuolabus?”) o bizzarre (del tipo: “È appena entrato un pinguino con un sombrero da questa porta. Cosa può dire e perché è qui?”). Laszlo Bock, il top manager che a Google detta legge in fatto di assunzioni del personale, in una intervista del giugno 2013 al New York Times ammise candidamente di essersi reso conto che domande del genere costituivano soltanto una “complete waste of time”, una completa perdita di tempo.

Uno dei mantra di Bock, che un anno fa ha dato alle stampe Work rules! di cui purtroppo ancora non c’è un’edizione italiana, è: “Assumi soltanto persone che sono più intelligenti di te, non importa quanto a lungo devi impegnarti per trovarle”. Ma Bock, per primo, è convinto che i comportamenti siano rivelatori di una molteplicità di aspetti intellettivi più di quanto lo siano il possesso di un titolo di studio (il 14% dei dipendenti di Google non è laureato) o l’abilità di risolvere un enigma o un rompicapo.

Il ruolo dei test
Se l’intervista – purché strutturata – è lo strumento principe della selezione, i test rappresentano a loro volta un supporto estremamente utile per una valutazione il più possibile oggettiva e ponderata di un candidato. Privarsene può indurre un reclutatore a fidarsi troppo delle sensazioni “a pelle”, fino ad assumerle a criterio determinante nelle scelte che opera.


Uno stereotipo ad esempio è che solo un soggetto estroverso sia tagliato per la vendita. Adam Grant, docente di management alla Wharton School in Pennsylvania che sarà anche uno degli speaker di fama internazionale della prossima edizione del World Business Forum (8-9 novembre a Milano), lo ha smentito coi fatti producendo nel 2013 i dati di uno studio sul rendimento di migliaia di venditori nell’arco di tre mesi. I più produttivi sono risultati coloro che, sulla base di un questionario preliminare, sono stati classificati come ambiversi, cioè che occupano una posizione intermedia nella scala di valori che ai due opposti ha estroversione e introversione. Ma il dato più sorprendente è che gli introversi realizzano fatturati mediamente superiori del 10% rispetto a quelli degli estroversi. Ciò che li rende più efficaci è in particolare una capacità di ascolto nettamente più sviluppata.

In genere i test si catalogano suddividendoli in due grandi famiglie: attitudinali e di personalità.
Fatto salvo che una previsione perfetta è un’utopia, molti studi attribuiscono una validità predittiva maggiore, sia pur di poco, ai primi rispetto ai secondi. Ma è sempre così? In realtà, pur rientrando nella categoria dei test di personalità, i test comportamentali hanno ormai dimostrato un notevolissimo indice predittivo. E la ragione in fondo è molto semplice: il comportamento è solo un tratto a sé stante della personalità. Ciò significa che non è mai automatico che due soggetti che hanno personalità somiglianti tengano comportamenti analoghi. Non basta: spesso c’è un distanza siderale fra i comportamenti che caratterizzano un individuo sul lavoro e nella vita sociale. La conclusione è che inquadrare la personalità di un candidato non è elemento sufficiente per stabilirne i comportamenti.

Venditori: i più comprati
I venditori, nonostante il web abbia spalancato nuove frontiere, restano la figura più ricercata dal mercato. Più del 55% delle offerte di lavoro che tratta la mia società riguarda espressamente la vendita.
In parallelo a una richiesta che si mantiene sostenuta c’è poi il fenomeno dell’elevato turnover, alimentato da frequenti cambi di casacca e abbandoni.

Sarebbe eccessivo dire che c’è anche una sorta di crisi di vocazioni, ma è un fatto che le candidature che pervengono sono di dieci volte inferiori a quelle inoltrate per posizioni impiegatizie, la cui ricerca è di sei o sette volte inferiore.

Nel corso dei decenni, se non dei secoli, in tantissimi si sono cimentati nell’impresa di tracciare l’identikit del venditore ideale. Forse è un po’ come inseguire la pietra filosofale, ma è indubbio che nel tempo per avvicinarsi all’obiettivo si sono perfezionate le metodologie e si sono acquisiti nuovi strumenti.

Nel mio piccolo, professionalmente sto investendo sulle opportunità che offre un test comportamentale, che già utilizziamo con i necessari arrangiamenti, per rilevare quelle alchimie che contraddistinguono un top performer della vendita. L’ambizione non è certo quella di rintracciare la composizione di una sorta di dna per poi scovarne dei cloni. Semplicemente nasce dall’esigenza, avvertita da tutto il mondo del reclutamento, di affinare i processi di selezione per minimizzare i margini di errore.