Fondamentali del business


Valeria Tonella Valeria Tonella

Dal volume N° 38

La checklist contro l'"effetto cocaina"

Il 26 novembre 2008, un volo della Delta Air Lines Shanghai-Atlanta si trovava sopra allo stato del Montana (Usa), quando sfiorò la catastrofe. A 39 mila piedi di altezza, con 247 persone a bordo, il Boeing 777 registrò una “riduzione non comandata” dei giri di uno dei motori. Uno dei motori si fermò. I passeggeri, però, non si accorsero di nulla: pilota e copilota rimisero in moto il reattore e salvarono 247 vite.


Mohnish Pabrai è un manager indio-americano socio della Pabrai Investiment Funds di Irvine, in California. Si definisce un “value investitor”, “investitore orientato al valore”, specializzato nella acquisizione di titoli di aziende trascurate o sottovalutate. Il suo lavoro è quello di andare a caccia di buoni affari, investire sul lungo periodo, “comprare la Coca-Cola prima che tutti capiscano che sta per diventare la Coca-Cola”. A giugno 2015, Pabrai amministra un portafoglio che vale quasi 500 milioni di dollari.
Che cos’hanno in comune l’incidente al Boeing 777 e le fortune di Mohnish Pabrai? A prima vista, nulla.
Tuttavia, se andiamo a vedere quale metodo di lavoro usano l’equipaggio dell’aereo e questo grande investitore, troviamo un filo rosso, e si chiama checklist.


Nello scorso numero di V+, abbiamo conosciuto questo strumento: una “lista delle cose da fare” da spuntare quando le abbiamo fatte.
Abbiamo anche visto, però, che non tutte le “to-do list” sono uguali, e che una di quelle che negli ultimi anni ha dimostrato di dare maggiori risultati è stata creata e collaudata da un medico, un chirurgo di Boston: Atul Gawande. È proprio Gawande, nel libro Checklist, a raccontare dello scampato disastro sul Boeing 777 e di Mohnish Pabrai. A riprova che, anche se la sua checklist – diventata nel 2009 la checklist ufficiale della Organizzazione mondiale della sanità – proviene dall’ambito medico, rappresenta più che altro una “cultura”, quella della disciplina, dell’efficienza e del lavoro di squadra.
Il pilota e il copilota del volo diretto ad Atlanta rimisero in azione il motore bloccato seguendo una checklist che era stata predisposta proprio per quella situazione. E, analizzando la storia, Gawande ha scoperto che la prima checklist nasce nell’aviazione, negli anni Trenta, dopo la terribile esplosione di un aereo appena decollato.
Mohnish Pabrai, dal canto suo, lavora nel business, che è forse più ondivago di una turbolenza. Il manager, intervistato da Gawande, ha dichiarato che prima scoprire le aziende che “valevano la pena” gli portava via un sacco di tempo. Un investitore del suo calibro esegue uno o due investimenti ogni tre mesi, e per ogni società di cui compra le azioni deve fare un’analisi di almeno dieci aziende candidate. Centinaia di opportunità, la maggior parte inconsistente; poi c’è quella che “ti fa battere il cuore”. C’è un ma: “Il cervello, infatti, passa a lavorare in modalità avida”. Quello che un altro investitore, Guy Spier, ha chiamato l’effetto cocaina: la prospettiva di guadagno stimola gli stessi circuiti cerebrali attivati dalla droga. In questo stato mentale, si rischia di commettere gravi errori, soprattutto con portafogli così “imbottiti”. Ed è a questo punto che un investitore ha bisogno di evitare un eccesso di ottimismo e di affidarsi invece a una valutazione sistematica, precisa, sicura. Pabrai racconta di aver commesso molti sbagli, prima delle checklist. Sbagli di analisi. Dei debiti delle imprese, delle loro relazioni finanziarie, del curriculum del gruppo direttivo, degli sviluppi del mercato. Informazioni disponibili, tutte quante, ma che lui aveva – dall’alto della sua esperienza – tralasciato.
Ecco, allora, perché serve una checklist.
Tanto più quando bisogna agire in situazioni di “panico” o gestire più cose o persone in tempi rapidissimi.
“In un periodo di estrema volatilità, la checklist fornisce un vantaggio sulla concorrenza: l’efficienza”.
Pabrai la usava da un anno, quando ha scoperto che il suo capitale di fondo era più che raddoppiato, e che, checklist alla mano, riusciva a vagliare le scelte di investimento in modo più rapido e metodico.


Come deve essere una checklist per funzionare bene?


1. Breve: deve contenere tra le 5 e le 9 voci da spuntare, da leggersi in 60-90 secondi, meglio se su una pagina unica e a caratteri grandi.
2. Specifica: ogni checklist deve riguardare una situazione diversa (organizzazione di un meeting, riunione dei soci, produzione di un catalogo, incontro con il cliente…). I piloti d’aereo ne hanno di due categorie: le “normali”, per le attività di routine (decollo, atterraggio…), e le “non normali”, per le emergenze (malori, fumo in cabina, avaria…). Suddivisione che può essere utile anche a noi.
3. Facile da leggere: scegliete un linguaggio condiviso da tutti quelli che la dovranno usare.
4. Pratica: le buone checklist “svegliano” il cervello, vanno al punto, sono funzionali nelle situazioni più complicate. Non descrivono troppo i dettagli, ricordano i passi più importanti, quelli su cui anche un “esperto” può sbagliare, e che… fanno decollare l’aereo e lo tengono su!
5. Puntuale: una checklist deve arrivare al momento giusto. E deve essere consultata al momento giusto. Esistono due tipi di checklist: quella di “esecuzione e conferma”, che prevedono che i membri di un gruppo svolgano le rispettive mansioni e poi fanno una pausa per verificare che le cose da fare siano state fatte; e quella di “lettura ed esecuzione”, quando gli esecutori spuntano via via le diversi voci (come con le ricette in cucina).
6. Si focalizzata sulle “voci killer”: Gawande racconta che nella chirurgia le checklist sono diventate indispensabili per far fronte ai grandi “killer”, infezioni, emorragie, anestesie non sicure, cioè le situazioni che causano più danni ai pazienti. Lo stesso è richiesto a noi: individuare le attività in cui è più facile sbagliare e che, se capitano, sono le più difficili da arginare.
7. È accettabile e accettata da tutti. Forse il tasto più dolente. Non è solo questione di fare e spuntare liste: una checklist comporta un cambiamento, nel metodo di lavoro, nella distribuzione delle responsabilità, nei tempi. Alcuni potrebbero non condividerla subito: “Perché dovrei cambiare, alla mia età?”. È da prevedere, come la chiama Gawande, una “curva di apprendimento”, un periodo nel quale la checklist entri nella routine.
8. “Pignola”. “Le checklist non sono uno spasso. Il ricorso a una lista ci sembra un mezzuccio, ci fa sentire in imbarazzo”. Insomma, una perdita di tempo. E poi c’è il pregiudizio che chi ha esperienza, chi ha talento non spunta liste. “L’idea di un protocollo evoca in noi lo spettro della rigidità. Ci immagiamo degli automi privi di raziocinio, con la testa sprofondata dentro ai fogli. Quel che succede, però, quando la checklist è ben fatta, è l’opposto”. Una checklist sgombra il cervello e il campo dalle stupidaggini… dalla routine! Così possiamo concentrarci sulle cose importanti. Una checklist non rallenta il lavoro di gruppo: lo migliora. Non riduce la comunicazione: la migliora. La checklist di Gawande, ad esempio, dice che, prima di iniziare un’operazione chirurgica, tutti i membri dello staff si presentano e palesano il loro ruolo. Ognuno si assume delle responsabilità verso gli altri, promette ad alta voce (“Farò del mio meglio”) e si guadagna fiducia. Certo, ci vuole un po’ di disciplina, nell’accettare di avere una funzione in concerto con altri, ed è l’obiettivo più difficile. “Siamo creature imperfette e incostanti”.
9. Realistica: una checklist deve sempre essere collaudata nel mondo reale e non solo scritta su una scrivania. La prima bozza di una checklist non è mai quella definitiva. Siate pronti a fare le necessarie modifiche e a provare e riprovare fino a quando tutte le voci non funzioneranno nel modo dovuto.
10. Un punto di partenza. La checklist deve essere la base da cui iniziamo per valutare errori e insuccessi.

La funzione delle checklist viene comunemente fraintesa: che siano state progettate per costruire un grattacielo o tirare fuori dall’impiccio un aereo di linea, non sono istruzioni per l’uso, ma strumenti per salvare delle vite. (Atul Gawande)