Fondamentali del business


Valter Ribichesu Valter Ribichesu

Dal volume N° 56

Tutti sono utili... tranne i venditori che sono indispensabili

 

L’antico adagio che recita l’inutilità del singolo, di fronte alla sua assoluta sostituibilità, non vale per i venditori. Un venditore che ha compreso appieno il significato profondo di questa professione non si sostituisce tanto facilmente. Un venditore, capace e ben strutturato, sarà sempre una pedina fondamentale di qualunque attività aziendale e commerciale, ieri come oggi e almeno per i prossimi 20 anni.

Nel suo libro Il venditore meraviglioso (tradotto nelle più recenti edizioni in italiano in Come si diventa un venditore meraviglioso, titolo originale How I Raised Myself from Failure to Success in Selling edito da Longanesi), Frank Bettger ha descritto per primo, in forma molto ben narrata, le caratteristiche di quello che lui definisce il “venditore meraviglioso”. È un libro che costituisce una pietra miliare nel progresso di questa professione, e anche se si tratta di un’opera datata (la prima edizione in italiano è addirittura del 1954!), vi assicuro che è ancora ricca di spunti e consigli assolutamente attuali.
Tuttavia, nel leggerlo o rileggerlo, si evince come questa professione nel corso degli anni, pur mantenendo una forma stabile, sia profondamente cambiata. Il cambiamento, d’altro canto, è l’unica vera costante dell’universo. Tutto quello che ci circonda è destinato a cambiare, e tutto ciò che non cambia cessa di esistere. L’unica cosa che non cambia è la propensione delle cose a cambiare!

Ma come è cambiata questa meravigliosa professione? L’immagine sulla copertina della prima dizione italiana del Venditore meraviglioso rappresenta un Bettger che a tutti gli effetti rispecchia l’immagine stereotipata del venditore che la maggior parte delle persone ha ancora oggi in mente: sorriso smagliante, abito impeccabile, cravattino sobrio ed elegante, mano propesa in avanti per stringere fiduciosa quella del cliente. Un’immagine estremamente romantica che rispecchia un’epoca che, di fatto, non esiste più. Non che queste cose non abbiamo più importanza, tutt’altro! Solo che, non sono più sufficienti.

Bettger era solito dire: “Double your enthusiasm and you'll probably double your income”, “Raddoppia il tuo entusiasmo e probabilmente raddoppierai le tue entrate”. Negli anni passati questo approccio si è rivelato efficace. Non è un caso se qui in Italia, fino a pochi anni fa, l’unico modello di formazione che si rivolgeva ai venditori, a esclusione di quella tecnica sul prodotto o servizio, era di tipo “motivazionale”. Si cercava in tutti i modi di instillare nei commerciali l’entusiasmo di cui parla Bettger (e molti altri sulla sua scia), come se si trattasse dell’unica cosa che serviva per vendere, ma soprattutto come se fosse qualcosa che si poteva “inserire” nello schema di comportamento di un essere umano, e utilizzarla a piacimento! Se ne sono viste di tutti i colori: camminate sul fuoco, tavolette da spaccare con le mani, frecce da rompere con la gola, pali su cui arrampicarsi. Tutte attività, sia chiaro, che, se ben contestualizzate, hanno il loro motivo di esistere; alla lunga, però, si sono rivelate più dei palliativi che delle forme di crescita professionale, spesso generando l’effetto paradossale di allontanare le persone dalla vendita. Tra l’altro sono passate velocemente di moda…

Oggi quello che serve per essere “venditore meraviglioso” è un cocktail di ingredienti ben selezionati e molto ben miscelati.
Negli Usa le aziende hanno lavorato per prime per dare una forma moderna alla professione del venditore e, come era ovvio attendersi, sono anche arrivate per prime a comprenderne i mutamenti. Così in Italia siamo di fronte a un evidente anacronismo: avendo cominciato a pensare alla vendita come a una professione, scopiazzando qua e là strumenti e tecniche “Made in Usa” che invecchiavano mentre le imparavamo, attraverso pseudo formatori dal presunto e non verificabile curriculum maturato oltre oceano, siamo ancora molto indietro rispetto a tutto quello che c’è da capire.
Spesso nelle affollatissime mega aule dei “corsi di vendita”, si parla di marketing anziché di vendita, e per un motivo molto semplice: non si può insegnare qualcosa che si è appreso standosene solo seduti in aula. Ammesso (e non concesso) che questi forma-attori presumibilmente formatisi negli Stati Uniti abbiamo appreso qualcosa, di sicuro non hanno avuto modo di testare sul campo le loro abilità di venditori e le tecniche eventualmente acquisite. Ecco quindi che parlano di qualcosa che assomiglia alla vendita, ma che vendita non è…

Questa condizione ha fortemente contribuito ad alimentare l’italico persistere a non voler considerare la vendita una professione, ma piuttosto un’attività transitoria tra lo studio o la disoccupazione e il mondo del lavoro “vero”. Quindi oggi la sfida sembrerebbe essere tra il venditore italico tutto talento e passione, formatosi con il “metodo motivazionalentusiasta pirobastico” e l’organizzato, ben strutturato e professionista del commerciale born in the Usa.

Come spesso accade, la verità sta nel mezzo. Il vero cambio di paradigma probabilmente sta nello smettere di pensare che la vendita sia un’attività destinata a poche persone dotate di particolare talento a cui attingere in attesa di tempi migliori, e di pensare invece che sia una professione che, in quanto tale, si possa apprendere.

Esistono, come d’altro canto esistono in ogni mestiere, dei fattori legati alle attitudini che ogni persona possiede. Fattori che costituiscono le fondamenta su cui costruire la professione.
Non si tratta di talenti; un talento è qualcosa che una persona possiede dalla nascita, una predisposizione d’animo, una naturale inclinazione che non si può accrescere così come non la si può perdere.

Un fattore fondamentale è piuttosto una condicio sine qua non, una condizione senza la quale non si può verificare un evento, che può rientrare tra i “talenti” di una persona, come può non rientrarci.
Sono quindi condizioni “instabili” che si possono apprendere, aumentare e anche perdere.

Per comprendere se si possiede talento per una determinata attività, basta verificare se ci divertiamo mentre la svolgiamo. Se ci divertiamo, significa che abbiamo una naturale propensione per quella attività, e quindi si può dire che “abbiamo talento”; in mancanza del divertimento, siamo di fronte alla condizione contraria.