Noi e gli altri


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Dal volume N° 73

L'azienda ha una voce, anzi... ne ha tante! Megan Reitz e il dialogo al lavoro

 

Sotto l’ennesimo post diatriba sul tema “ma si dice assessora?”, un commento ci ha colpito: “Le parole descrivono il mondo e come lo viviamo”. Come vivi, tu che leggi, il mondo della tua impresa? Con quali parole? Meglio: con quali conversazioni?

Non riguarda solo le chiacchiere che facciamo (facevamo?) davanti al distributore di caffè: le abitudini conversazionali indicano tutte le scelte che prendiamo quando dobbiamo decidere se parlare o no, cosa dire e cosa non dire. Non una scelta da poco! Definiscono le nostre relazioni, a volte la nostra carriera.

Ampio spazio all’argomento è stato dato (e giustamente) dalla prima relatrice del Leadership Forum di Performance Strategies, Megan Reitz: docente di Leadership e dialogo alla Hult International Business School, inserita nella classifica dei 50 pensatori di business più influenti da Thinkers50 e HR Magazine. Hai notato? Insegna “Leadership e dialogo”: forse l’una non prescinde dall’altro?


IL DIALOGO CHE ACCELERA L'INNOVAZIONE (OPPURE NO)
«Quando avvengono delle conversazioni in azienda, seguiamo dei “pattern”, degli schemi, sia come individui che come gruppi o azienda nel complesso, e senza accorgercene, ci congeliamo in questi modelli. Pensate, per esempio, all'imprenditore che finisce sulle prime pagine dei giornali perché voleva dire una cosa, ma è stato frainteso. Oppure ha detto qualcosa, ma non è stato ascoltato. Una abitudine conversazionale “buona”, invece, prevede che nei gruppi di lavoro le persone non abbiano paura di alzare la mano per proporre delle idee o per esprimere disaccordo».


Parlare o tacere? Ascoltare o ignorare? Qui sta il nocciolo delle conversazioni che accelerano la crescita e l’innovazione oppure no. In entrambi i casi, ci definiscono: definiscono chi siamo e come lavoriamo.


TUTTI DEVONO PARLARE, MA CHI ASCOLTA?
«Studio da anni le abitudini conversazionali, – sottolinea Reiz – e di solito sono due i problemi che si verificano:
1. ci sono leader che mi dicono che “loro”, cioè le altre persone, non parlano. “Loro”. Gli altri dovrebbero più assertivi, evidenziare quando il leader sbaglia, presentare più idee… ed è giusto che dipendenti e collaboratori abbiano il coraggio di esprimersi, ma i leader devono essere poi in grado di ascoltare. Vi sembra scontato? Non lo è affatto. Allo “speak up” (l’azione di “farsi sentire”) deve fare seguito il “listen up” (ascolto attivo), altrimenti le conversazioni non solo poco innovative, ma anche poco insostenibili.


2. Ci sono leader che incentivano le conversazioni, purché si parli solo del loro business. Restano “piantati” su conoscenze molto specifiche, senza guardare troppo fuori dall’azienda o dal settore, mentre i dipendenti, sempre di più, pensano: “Sai che c’è? Vogliono che io parli? Allora parlo davvero!” E vogliono parlare di più cose: ambiente, cambiamento climatico, temi sociali, economici. Cercano dai leader delle conversazioni più ampie, perché contribuiscono a idee più innovative.


L’attivismo dei dipendenti o collaboratori
Un fenomeno molto riscontrato nelle aziende di tutto il mondo vede i dipendenti e i collaboratori interessati ai temi sociali, ambientali, etici del momento e desiderosi di portarli anche all’attenzione dei “capi” e nelle conversazioni aziendali.


Di fronte all’attivismo dei dipendenti, un’azienda può comportarsi in modi diversi.
•    Facciatismo: ne parla, ma poi si ferma lì. Esempio: l’azienda discute internamente di sostenibilità, ma non agisce.
•    Coinvolgimento difensivo: i leader si mostrano coinvolti, ma solo perché devono farlo, e lo fanno il meno possibile.
•    La risposta proattiva: i leader dialogano e partecipano. Sanno di non sapere tutto, indagano, ascoltano. E si crea il dialogo.
•    Attivismo aziendale: dai dipendenti ai vertici. I leader incoraggiano l’attivismo dei dipendenti, e assumono persone che si interessino ai grandi temi globali.

SE NON PARLI, PERCHÉ LO FAI?
«Pensa a qualcosa di cui, in questo momento, potresti o dovresti parlare al lavoro, ma di cui non hai ancora parlato. Perché ti comporti così? Perché stai zitto? Ci possono essere vari motivi: non sei sicuro della tua opinione; hai paura di essere percepito negativamente o di dare fastidio; non si è presentata l’occasione giusta; o pensi che, in fondo, non ci sia niente di cui discutere. In una ricerca, abbiamo posto questa domanda a circa 10 mila persone, ed è risultato che il motivo più diffuso è il secondo: abbiamo paura di essere percepiti negativamente o di dare fastidio, o addirittura far arrabbiare, qualcuno. A dimostrazione che siamo degli animali sociali, e ci piace costruire e far proseguire delle buone relazioni. Il più delle volte, se pensiamo che esprimere la nostra idea danneggi la qualità delle relazioni, restiamo zitti. Altro dato strabiliante: almeno un terzo del campione ha dichiarato il timore di essere ignorato, anche qualora volesse dire la sua. È un problema non da poco, specie ora che lavoriamo da remoto e ci troviamo in questi grandi meeting su Zoom dove la nostra opinione fatica a venire a galla».

IN PRATICA?
«Valutiamo se forse non stiamo cadendo in una di queste tre trappole:
1. incuti paura e non te ne rendi conto;
2. non metti in discussione la tua cerchia ristretta;
3. mandi dei segnali che spingono a tacere.

È molto comune per i leader ignorare che ci siano dipendenti che ci pensano due o tre volte prima di rivolgersi a loro. Lo sforzo da fare è vedersi come gli altri ci vedono.
Un altro errore, spesso inconsapevole, consiste nell’avere in mente un piccolo gruppo di cui siamo disposti ad ascoltare le opinioni, e nell’escludere tutti gli altri. Di solito sono persone simili a noi, con le nostre idee (le famose “echo chambers”, “casse di risonanza”), perché – diciamocelo – un po’ ci fa comodo così! Ma quale ricchezza di punti di vista perdiamo in questo modo?
Ultimo: mandiamo dei segnali scoraggianti: ci mostriamo accigliati o distratti, per esempio. Magari siamo solo concentrati, ma chi avete davanti non lo sa! Dobbiamo “conoscere” la nostra faccia, perché manda messaggi che condizionano moltissimo le conversazioni o le non-conversazioni».


IN CONCLUSIONE
«Non dimentichiamoci, - conclude Megan Reiz – che le conversazioni aziendali sono uno dei regali più grandi. L’ascolto attivo è il punto di partenza: gli altri non siano solo un “target”. Cerchiamo di essere presenti, nel qui e ora, di esserci davvero. E le persone con cui lavorate (e anche quelle con cui vivete!) se ne accorgeranno subito, e le conversazioni non potranno che migliorare».

> Questo articolo è stato pubblicato in origine sul numero 73 di V+: puoi scaricarlo qui e scoprire gli altri contenuti gratuitamente!