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Dal volume N° 26

Andre Agassi: "Il fallimento che mi ha quasi distrutto"

UN ROVESCIO FENOMENALE NON BASTA A RIMANDARE INDIETRO IL FALLIMENTO: LO CONFESSA IL PRIMO FRA I PRIMI DEL TENNIS, UNA LEGGENDA DELLO SPORT CHE, TRA ALTI E BASSI, RICORDA LA GLORIA, LE SCONFITTE E LA RINASCITA

INTERVISTA AD ANDRE AGASSI

PER GENTILE CONCESSIONE DI WOBI

Chi non conosce Andre Agassi? Leggenda del tennis, classe 1970, dai primi anni Novanta leader indiscusso della racchetta, con più di sessanta titoli vinti. Nell’aprile del 1995 scala l’Olimpo dei campioni ottenendo il primo posto assoluto nella classifica mondiale della Association of tennis pro-fessionals (Atp). Si ritira nel 2006, salutato, alla fine della sua ultima partita, da una lunghissima ovazione di pubblico.

Di Agassi tutto si è detto e scritto: che è stato la “rockstar del tennis” (irripetibili le sue tenute sul campo con divise colorate, capelli ossigenati e orecchini); un divo, amante della mondanità, che sconvolse l’austero mondo del tennis, ma anche uomo riservato e smarrito nella droga.

La sua carriera, costellata da alti e bassi, e la sua vita personale sono raccontate nell’autobiografia,

Open, pubblicata nel 2011, dove Agassi fa emergere un sentimento che i suoi tifosi più fedeli non avrebbero pensato possibile – o forse sì: l’odio per il tennis e il successo a tutti i costi.

In quelle pagine e in questa intervista, rilasciata sul palco dell’ultimo World Business Forum di Milano, Agassi parla di sé, delle persone (primo fra tutti il padre) che lo hanno influenzato e di ciò che, nello sport come nel business, distingue i “migliori”: la capacità di “giocare d’anticipo” e di accettare le proprie debolezze.

Cosa hai provato quando hai scoperto di essere il numero uno?

È più quello che non ho sentito che quello che ho sentito. Per mio padre il tennis era il modo più veloce per raggiungere il sogno americano e ar-rivare al successo. Mi definiva con tutti “il futuro giocatore numero uno del mondo”. Odiavo il ten-nis. Dovevo sentirmi come se avessi conquistato il mondo, invece non sentivo nulla.

Allora ho imparato che bisogna migliorare a pre-scindere dal ranking, dalla classifica, lavorando duro ogni giorno. Ho dovuto toccare il fondo prima di ritornare di nuovo alla mia vita. Ho avuto più successo negli ultimi cinque anni della mia carriera che nei primi 15.

Quali sono le persone che hanno maggiormente contato nella tua vita?

Le persone che influenzano la nostra vita non per forza lo fanno in maniera positiva. Un padre – soprattutto per un uomo – rappresenta un model-lo. Mio padre è stato un uomo “intenso”, che ha sempre avuto per me aspettative molto alte. Eravamo quattro figli, lui faceva due lavori per man-tenerci. Metteva molta pressione su tutti noi, così che avessimo quello che nella sua vita non aveva avuto. Mi diceva quali dovevano essere i miei obiettivi e non mi aiutava con la scuola perché era convinto che la formazione dovesse avvenire sul campo da tennis.

Poi a 13 anni sono entrato nell’accademia di tennis della Florida. Mi sono sentito abbandonato, strappato alla mia infanzia. L’unico modo per scappare era avere successo. Dovevo capire come vincere per potermene andare. Quando ce l’ho fatta, nessuno poteva più dirmi chi ero, anche se io stesso non lo sapevo.

Quindi mio padre ha avuto una grande influenza sulla mia vita, ma non sapeva niente di psicologia. Quando avevo nove anni, voleva farmi giocare con giocatori famosi che arrivavano in città. Alcuni si rifiutavano, ma mio padre era impossibile da fermare. Non conosce vergogna né imbarazzo, io sì. Quel padre e le situazioni che ho vissuto hanno avuto una grossa influenza su come ho imparato ad affrontare le pressioni.

Poi c’è stato Gil, il mio allenatore. Un “padre surrogato”. Mi ha insegnato che l’unico modo per migliorare era capire e accettare le mie debolezze. Mi ha aiutato a comprenderle.

Nel business non è diverso: bisogna essere obiettivi sui propri successi e sui propri fallimenti.

Sì, nella mia vita mi sono sentito un fallimento. Ho passato molto più tempo a non essere il nume-ro uno che a esserlo.

Il mio allenatore mi ha dato quello che un padre dovrebbe dare: tutto se stesso. Gli interessava di me più di quanto interessasse a me stesso. Ogni giorno dovevo allenarmi per essere migliore del mio futuro avversario. Ho capito che per vincere devi fare tutto ciò che puoi controllare meglio del tuo avversario. Come controlliamo tutti gli elementi: ecco cosa fa la differenza.

Gil mi ha guidato e insegnato come dare il 100%, anche quando ero al 50%.

Impossibile, infine, non nominare Stefi Graff, mia moglie. Ha avuto un ruolo cruciale per me e per il mio successo. Con lei ho capito che nella vita dobbiamo avere accanto qualcuno che sappia compensare le nostre debolezze.

Mia moglie, poi, è una persona di poche parole e d’azione. Mi ripete sempre: “È importante quello che fai, non quello che dici”. Guadagnare il suo amore e il suo rispetto è la cosa più bella che il tennis mi abbia regalato.

Parlando di cambiamenti e innovazioni: quanto è importante cambiare gli standard per avere successo?

Bisogna essere veloci, saper pensare “out of the box”, fuori dagli schemi, capire che il gioco può essere giocato in modo diverso.

Anche nel business anticipare è fondamentale. A volte nell’anticipare i tempi si ha fortuna, ma bisogna allenare questa capacità quotidianamente, migliorarsi con costanza e trovare sempre un nuovo modo per reagire.

Per esempio nel tennis la tecnologia applicata alle racchette ha cambiato l’equazione, le regole, le traiettorie e l’aerodinamica. Ha cambiato l’intero sport, ma cambiando ciò che è importante.

È dura adattarsi e abituarsi al cambiamento, perché il mondo non è più lo stesso di prima. Tuttavia l’innovazione va ricercata. A volte basta un picco-lo elemento a renderci diversi dalla concorrenza.

Che differenza c’è tra una persona che ha talento e un campione?
Nasci con un talento ma poi bisogna lavorare molto. Nel tennis le classifiche ti aiutano a capire chi è il numero uno e a che punto sono i rivali.

Avrei voluto che anche la vita avesse una classifica, per aiutarmi a pianificare il futuro. Purtroppo non è così semplice, ma bisogna rimanere focaliz-zati e soprattutto mantenere l’equilibrio.

Nel ‘94 la stampa ha scritto: “Agassi non è un campione”. Come hai reagito?

Ho aperto gli occhi su come le persone mi vedevano, su come i rivali mi percepivano. Non ho ce-cato di controllare i feedback negativi, ho cercato di usarli per crescere. Ecco perché perdere serve più che vincere.

Penso a Pete Sampras (ex tennista statunitense, altro numero uno al mondo, storico rivale di Agassi, ndr): perdere con lui mi ha reso più forte e resistente nel lungo termine. Avere un rivale ti spinge verso limiti dove non ti vorresti spingere, verso traguardi che non avresti pensato di rag-giungere. Mi ha portato a giocare con più convin-zione, anche se odiavo doverlo affrontare, perché eravamo uno il contrario dell’altro. Lui era tutto quello che io non ero. Alla fine ha lasciato un se-gno profondo dentro la mia testa. Quando ha abbandonato il tennis, ero amareggiato. Ho dovuto trovare un nuovo “barometro”, nuove motivazioni, nuovi modi di pensare al di là del luogo comune.

Che ruolo hanno giocato le emozioni nella tua carriera e nella tua storia personale?

Quando sono passato a essere il numero 140 dal numero uno, è stato il periodo più cupo della mia vita.

Non ho mai odiato così tanto il tennis. Mi sentivo totalmente scollegato dalla mia vita e avevo bisogno di cercare qualcosa che fosse mio. Ho sempre giocato per mio padre, “per natura”. Non sapevo cos’altro fare, sapevo solo vincere!

Ma per fortuna una nuova motivazione per tornare a giocare l’ho trovata: sono stati tutti quei bambini che come me non hanno potuto studiare, ma che diversamente da me non hanno avuto la fortuna di poter giocare. Ho deciso quindi di costruire una scuola, qualcosa di più grande di me con cui sentirmi connesso. È diventata la mia ragione di vita.

Da lì in poi il tennis per me è cambiato: è diventato un’opportunità per comunicare la mia visione del mondo. Ho iniziato a pormi obiettivi quotidiani, semplici e tangibili, che mi permettessero di migliorare. Ho trovato una nuova prospettiva, un nuovo amore per il tennis che prima non avevo.

Alla Agassi Academy abbiamo un motto: “l’essenza della buona disciplina è il rispetto, a scuola, in campo e nella vita”. Ho rubato questo modello a un educatore che ha 140 scuole e che mi ha ispi-rato nella costruzione della mia. In questo senso sì, rubare è un orgoglio: vuol dire mettere in compartecipazione quello che funziona.

Nella mia scuola voglio che passi un messaggio preciso: la nostra vita riguarda anche gli altri, ma non si possono rispettare gli altri se non si impara a rispettare se stessi, a casa, a scuola, in campo. Ovunque.

Spero che questi bambini potranno fare scelte importanti da grandi, per costruire un mondo migliore rispetto a quello in cui sono nati.