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Altro caso di licenziamento causa Youtube: severità o leggerezza?

Ormai i casi di lavoratori licenziati per qualcosa che hanno messo online non fanno più notizia. O forse sì, perché tutta quella parte di legislazione che si basa su episodi, cioè la giurisprudenza, si sta ampliando sempre di più.

Ci sono già degli orientamenti, che i giudici seguono, ma è ancora tutto da normare. Quel che è certo è che le aziende non si lasciano più prendere in giro o scimmiottare, nemmeno se il dipendente che pubblica il video su Youtube lo realizza e lo pubblica fuori dall'orario di lavoro. L'ultimo sgradevole episodio è di un veneto, che ha doppiato con un collega uno spot di Ezio Greggio riutilizzandolo per parlare della sua azienda, la Old Wild West. Accusato di lesione alla reputazione aziendale, è stato licenziato, nonostante l'assistenza del sindacato, sulla base dell'articolo 2119 del Codice civile e dell'articolo 192 del contratto nazionale del lavoro del settore Turismo e pubblici esercizi (sul licenziamento per giusta causa). Avrebbe leso, in modo irrimediabile, il vincolo di fiducia tra datore e dipendente. I video - perché ne sono stati scoperti altri due - sono stati rimossi dalla rete. Pare, inoltre, che l'uomo in questione avesse già prodotto prima un centinaio di video satirici, alcuni riguardanti altri locali della sua città. Tutte star, anche di Hollywood, ben doppiate in dialetto veneto.

Non c'era stata nessuna contestazione. Finora. Ma l'ironia, stavolta, è diventata "contraria a ogni principio di lealtà e correttezza e diligenza". Il dipendente, poi, a detta dell'azienda, si è appropriato indebitamente delle immagini dello spot, le ha manipolate, ha usato senza autorizzazione dei marchi, protetti da copyright, e il contenuto dei dialoghi aveva carattere irrisorio. Troppo, per l'azienda, che ha anche accennato a una via legale. C'è stato "solo" il licenziamento.

Una frontiera, quella dell'uso dei nuovi mezzi tecnologici, ancora aperto, apertissimo, che richiede soprattutto buonsenso (anche in seguito alle disposizioni del Jobs Act). Sempre nel Trevigiano, molte aziende si sono mosse autonomamente per dare delle direttive ai dipendenti. Casi simili ce ne sono stati tanti nell'ultimo periodo: un commesso licenziato dopo aver pubblicato foto su Facebook indossando magliette di uno stilista concorrente; una cameriera ripresa dal principale perché aveva partecipato alla festa di un altro locale, mostrandone sempre delle immagini sul social. Entrambi ricorreranno al giudice. Ma già nel 2001 una lavoratrice di un'azienda di abbigliamento era stata sospesa per aver scritto un'email a un'amica sull'account aziendale: "La capa sta sclerando".

Il consiglio, per il momento, è di non mettere online niente che non vogliamo che il capo veda, in qualsiasi contesto.

La cosa non finirà certo qui. Gli utenti del web sono già in tiepida rivolta: su Facebook il gruppo chiuso "Fired by Facebook" riunisce circa 600 iscritti che hanno avuto guai al lavoro a causa del social. E poi c'è il sito The Facebook Fired, che raccoglie tante testimonianze. L'ultima di un'insegnante che ha dato le dimissioni dopo che la mamma di una studentessa aveva messo su Facebook la foto di lei che scriveva parole oscene sulla lavagna (la classe si è schierata con la prof, ma il danno era fatto).

Troppa severità da parte delle aziende o troppa leggerezza da parte degli internauti?

Fonte: La Tribuna di Treviso


Ai tempi dei social network:

- Disoccupato a causa di una stupida cosa personale pubblicata su Facebook.

- Lo stesso anch'io.

- Nel mio caso era un imbarazzante video su Youtube.