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Dal volume N° 21

L'ISTINTO NON TRADISCE MAI

È SOLO UNA PERCEZIONE, ALLA FINE SI RIVELA QUELLA GIUSTA. COME È SUCCESSO A FRANCIS FORD COPPOLA, REGISTA DEL PADRINO, QUANDO CONOBBE MARLON BRANDO E VIDE IN LUI IL FUTURO VITO CORLEONE

 

INTERVISTA A FRANCIS FORD COPPOLA

A CURA DELLA REDAZIONE

PER GENTILE CONCESSIONE DI WOBI

 

Capita raramente che un artista sia anche un imprenditore. Quando avviene, ed è il caso dell’ospite di questa puntata, i suoi punti di vista sono particolarmente interessanti e utili per tutti noi che cerchiamo di capire l’origine del successo. Se l’ospite poi è dotato di grande simpatia, è di origine italiana e innamorato dei suoi natali, non possiamo che parlare di Francis Ford Coppola.

Regista di molti film di successo, fra cui la trilogia del Padrino e Apocalypse now, che ha vinto cinque premi Oscar per la sceneggiatura e la regia; proprietario di un’azienda vinicola americana che produce annualmente dieci milioni di bottiglie di vini pregiati e di una catena di alberghi e ristoranti dentro e fuori gli Stati Uniti.

Gli abbiamo fatto qualche domanda.

 

Come è potuto accadere che un grande regista come lei diventasse un importante uomo di affari?

All’inizio non ero intenzionato a entrare nel business. Avevo una meravigliosa famiglia, e come tutti i miei familiari amavo molto mangiare; seguire questa passione l’ha trasformata quasi in automatico in lavoro, senza però che lo progettassi.

Come è successo? La mia famiglia è di origine italiana, proviene dalla Lucania (la moderna Basilicata) e dalla zona di Napoli. Al suo interno ci sono due tradizioni: grandi musicisti e grandi ingegneri meccanici. Arte e tecnica. Mio nonno da parte di mamma, Francesco Pennino, napoletano, componeva canzoni e amava il cinema. Mio padre, Carmine Coppola, è stato primo violino nell’orchestra di Toscanini e nella NBC Simphony Orchestra a New York. Suo padre, Agostino, era un notevole genio della meccanica. Sette figli, aveva inventato la macchina chiamata “Vidaphone” che forniva i suoni ai film, fino ad allora muti. E intanto nella cantina di casa, a New York, faceva il vino. All’epoca in America era proibito comprare alcolici, eppure noi consumavamo vino a tavola per cena (come tutti gli italiani, d’altronde). Mio zio Micky mi ha raccontato che, quando arrivava l’uva dalla California, i ragazzi più giovani, che avrebbero dovuto dare una mano nella produzione, la rubavano per mangiarsela.

Questi aneddoti mi hanno sempre fatto pensare quanto bello fosse fare il vino. Così, dopo che con mia moglie e i miei due figli ci fummo trasferiti a San Francisco, percorremmo la Napa Valley per cercare una casa di campagna con un vigneto e fare il vino come mio nonno. Mentre visitavamo dei piccoli casali, l’agente immobiliare mi informò che c’era un’altra casa che voleva mostrarci, non proprio ciò che cercavamo, disse, ma ci consigliava di vederla lo stesso. Era la casa dei proprietari di una meravigliosa e antica tenuta vinicola, risalente al 1880 e suddivisa in lotti. Era molto più grande e bella di quello che avevamo in mente, ma la comprammo lo stesso.

Producevamo tanta uva e molti ci chiedevano di vendergliela. Invece di disfarcene, ebbi l’idea di fare davvero il vino, anche se mia moglie pensò subito a un’altra delle mie pazze avventure. Alla fine creammo la nostra azienda vinicola e non molto tempo dopo il pubblico americano decise che il vino faceva bene alla salute, e ci fu improvvisamente un grande interesse per il prodotto. Così mi trovai per puro caso in affari e anche in una posizione favorevole. L’azienda diventò sempre più grande.

 

E che cosa si può concludere da questa esperienza?

La conclusione è che, se nella vita fai le cose che ami, generalmente incontri il successo, perché ti riescono bene e gli altri le apprezzano. In altre parole, il business fondato sulle idee di cui sei appassionato di solito dà migliori risultati.

Se fai ciò che ti suggeriscono il tuo intuito e il tuo cuore, è molto probabile che tu abbia successo, mentre se fai qualcosa attratto soltanto dalla possibilità di guadagno, non avrai successo e perderai denaro.

Quindi bisogna imparare a coltivare l’intuito. Tutti noi, all’età di tre o quattro anni, siamo dei pittori meravigliosi. Davvero. Ogni persona a quell’età ha talento, è creativa, poi cresce, a scuola si sente apostrofare perché “questo modo di colorare non è giusto”, “questo disegno non è fatto bene”. Picasso diceva di aver speso l’intera vita imparando a dipingere come un bambino.

Io, che ho avuto una infanzia interessante, ho sofferto di poliomielite, sono stato paralizzato e ho trascorso molto tempo in solitudine, credo di avere conservato l’intuito di un bambino. Se manteniamo vivo quell’istinto, quando avremo bisogno di prendere decisioni importanti, saremo già dotati del miglior software per decidere.

In America diciamo dar retta allo “stomaco”. E quando prendo decisioni nel mio lavoro per il cinema o nel business, uso principalmente l’istinto, che di rado mi tradisce.

 

Ma seguire l’istinto non è cosa facile, e soprattutto è difficile “non tradirlo” sotto le pressioni a cui si è sottoposti quando le decisioni devono essere condivise da altri. A questo proposito il film Il padrino ha una storia significativa: ce la racconta? E ci racconta come è riuscito a superare le tante difficoltà di quel progetto?

In tutta onestà, se sono diventato molto noto, è perché ho fatto Il padrino. Ero una scelta improbabile come regista di quel film: italoamericano, 28 anni; in più fino ad allora a Hollywood nessun film di gangster aveva avuto successo. Anche se il romanzo da cui è tratto era molto popolare, i produttori non volevano un budget troppo impegnativo, per cui cercavano un regista che non costasse troppo, magari italoamericano. In quel momento a Hollywood ero il solo con queste caratteristiche, e così ebbi il lavoro. Subito, però, scoprii che ai produttori non piaceva nessuna delle mie idee: mi trovai di fronte a una mentalità aziendale non insolita, per cui prima vogliono assumere una persona creativa e, appena la inseriscono, non accettano da lei nulla di creativo.

Incontrai molte difficoltà quando suggerii Al Pacino, quasi sconosciuto, per il ruolo di Michel, e quando proposi Marlon Brando per il ruolo del padrino incontrai un’opposizione ancora più forte: che ci crediate o no, per quella parte preferivano Carlo Ponti. Ma era veramente italiano, mentre il padrino doveva essere un italoamericano di New York. Ricordo l’incontro con il presidente della Paramount Pictures: Brando aveva solo 47 anni e la reputazione di un pessimo carattere; in più aveva appena finito un film orribile, Torquemada, con pessime recensioni. Alla Paramount dissero no: la gente non vuole Marlon Brando. Il presidente si rivolse a me: «Francis, voglio che tu sappia che Marlon Brando non farà mai questo film, e voglio che tu non sollevi più il suo nome come possibile candidato».

Risposi irritato: «Se non posso neppure proporre le mie idee, che senso ha tutto questo...». Dissero: «Ok, porta avanti la candidatura di Brando, ma a tre condizioni: la prima è che faccia un test di interpretazione, la seconda che faccia il film gratis e la terza che metta a disposizione una obbligazione di un milione di dollari da utilizzarsi come eventuale risarcimento se il suo comportamento non sarà corretto». Accettai.

Adesso c’era da risolvere il problema più grande: non tanto quello dell’obbligazione, anche se Marlon Brando non possedeva assolutamente un milione di dollari, almeno non allora; il problema era il test: come farglielo fare? Uno dei più grandi attori del momento: non avrebbe mai accettato! Lo rispettavo molto, ma non lo conoscevo di persona. Lo chiamai al telefono, informandolo che avrei diretto Il padrino e che avevo pensato a lui per il ruolo del protagonista. Brando aveva letto il libro e sapeva la storia. Gli dissi che avrei voluto andare a trovarlo a casa sua per fare qualche breve prova e vedere se si sarebbe sentito a suo agio nel ruolo di un italoamericano. Fu un colpo di creatività a cui pensai per rendergli accettabile la richiesta di uno screen test.

Brando si rivelò molto gentile e acconsentì di vedermi. Sapevo che normalmente portava tappi nelle orecchie, perché non sopportava rumori improvvisi e amava la calma e il silenzio. Chiesi a un mio amico di San Francisco di venire con me con una macchina fotografica da 16 millimetri e mi raccomandai di non disturbare Brando in nessun modo.

Arrivammo a casa sua di prima mattina, il cameriere ci fece accomodare: Brando si sarebbe alzato di lì a poco. La porta della camera da letto si aprì e l’attore apparve con i suoi lunghi capelli biondi, vestito di una tunica giapponese. Lo salutai, ma quasi non gli parlai. Avevo portato con me pezzi di provolone e di salsiccia secca, e appoggiai queste specialità italiane sul tavolino insieme ad alcuni sigari toscani. Non volevo suggerire niente, ma pensavo che vedendo queste cose, cominciasse a sperimentare. Mentre il mio amico riprendeva la scena con discrezione, Brando raccolse i suoi capelli biondi e li arrotolò, prese della cromatina nera, se la spalmò sulla testa per renderli scuri e cominciò a mangiare la salsiccia, senza dire niente. Di fronte ai miei occhi cominciò a trasformarsi in quell’anziano uomo italoamericano che era il padrino. Ero stupefatto. Sapeva che nella storia il padrino era stato operato alla gola e parlava quindi con difficoltà e con un tono molto basso. E cominciò a parlare così: «Rorororo…». In quel momento suonò il telefono, rispose e continuò: «Rorororo...». Mi sono sempre chiesto che cosa deve aver pensato chi era all’altro capo del telefono.

Lo ringraziai e andai via. Adesso avevo in mano un filmato straordinario in cui un uomo di 47 anni, un bellissimo uomo con capelli biondi e lunghi, si era trasformato in questo anziano italoamericano che fumava il sigaro e tutto il resto...

 

Grazie a quel filmato, riuscì a ottenere l’approvazione dei vertici della Paramount. Quale commento può fare su questo episodio?

Il mio intuito, la mia percezione che Brando sarebbe dovuto essere il protagonista del Padrino portò alla decisione giusta, anche se l’intero vertice della Paramount era inizialmente in disaccordo. La mia situazione non cambiò molto: continuai a rischiare il licenziamento ogni settimana. Nessuno ha mai amato molto quel film, ed è sorprendente per me scoprire che dopo tanti anni è ancora così visto. È stato la base del mio successo. Alla fine ciò che ha fatto la differenza è stato il mio coraggio, il coraggio di rimanere ancorato al mio istinto.