Fondamentali del business


Mario Silvano Mario Silvano

Dal volume N° 1

DISEGNARE FOGLIE DI PERA

«NON IMPORTA QUELLO CHE FAI, QUELLO CHE IMPORTA È CHE NESSUNO LO SAPPIA FARE COME TE»

 

Un buon venditore deve essere tante cose in una: filosofo, disegnatore, insegnante, architetto, banchiere, attore, pioniere, economista. Ma deve soprattutto possedere un’ulteriore indispensabile dote: l’entusiasmo. Senza entusiasmo si fallisce. Non lo dico perché lo penso, ma perché l’ho sperimentato.

Sono nato nel 1930 a Novi Ligure, da una famiglia di origini contadine. Ne vado orgoglioso perché mi hanno insegnato il valore della saggezza e della concretezza. Ho cominciato a lavorare in un’azienda di dolciumi di Serravalle Scrivia. Qui ho fatto i mestieri più diversi e intanto sono diventato ragioniere. Quando l’azienda passò di mano, lo stipendio divenne incerto, inferiore al livello minimo contrattuale. Così, a diciannove anni, decisi di cambiare e di mettermi davvero in gioco e andai a Milano.

Come molti della mia generazione, come l’intero Paese nel dopoguerra, dovevo cominciare da zero. Dopo aver cambiato un paio di posti, venne la grande occasione. Risposi a un’inserzione e finii in Svizzera a fare il venditore. Seguii un corso di formazione alla vendita e lo misi in pratica. Rapidamente divenni capo area per il Piemonte e la Liguria: guadagnavo molto bene, perciò mi aspettavo una riduzione delle provvigioni o dell’ampiezza dell’area. Di nuovo, capii che era arrivato il momento di cambiare. Accettai una proposta alla Motta, dove entrai come venditore ma venni presto promosso, dapprima capo area e poi dirigente di una società collegata che operava in Liguria. Vendevo e guadagnavo molto, ma quando Angelo Motta morì, nel 1959, l’azienda venne acquisita da una grossa finanziaria. Mi aspettava una vita tranquilla, con stipendio fisso. Eppure non ero contento. Così, ancora una volta decisi di cambiare.

Mi candidai all’Oréal di Torino. Il presidente della società mi fece pensare per la prima volta alla possibilità di diventare formatore. E così, dopo qualche tempo, feci il grande passo e aprii a Genova un centro di formazione per venditori. Ma l’attività non decollava. Guadagnavo come un impiegato di terza categoria, e cominciai a demoralizzarmi. Mi domandavo se non avessi sbagliato mestiere, se non aves si sopravvalutato i riscontri che avevo ricevuto lavorando in azienda. Fu un periodo piuttosto duro e confuso. Ma presto mi resi conto di avere bisogno di aiuto, di qualcuno o di un’esperienza che mi aiutasse a capire e a mettermi alla prova. Il numero uno al mondo nella formazione per i venditori era allora Bernard Truiljo, americano, operava a Dayton. Gli scrissi non una, ma più volte. E solo allora mi rispose: «Vieni in America, e partecipa a un mio stage». Ma i soldi per il viaggio, non li avevo. Così andai in banca a chiedere un prestito e partii. A New York trovai una busta di Truiljo con un biglietto aereo per raggiungere Mc Allen, una località al confine con il Messico, dove si sarebbe tenuto il corso. Lì trovai soltanto altri due italiani: Vittorio Coin e Federico Pepe, che poi sarebbe diventato direttore generale del Banco di Napoli.

Durante le prime due settimane Truiljo era inavvicinabile. Il venerdì sera i figli di papà partivano per il week end con le loro Cadillac, qualcuno aveva persino l’aereo privato. Io invece me ne restavo chiuso nel motel, ero talmente solo che una sera scoppiai a piangere. Ma finalmente, una sera della terza settimana Truiljo mi mandò a chiamare. Quando lo vidi era un po’ alticcio e mi chiese a bruciapelo: «Hai imparato le tecniche di vendita?». «Sì – gli risposi – finalmente le tecniche le ho capite bene». «Allora, che cosa vuoi?». «Mi chiedo se sono all’altezza di applicarle». «Non c’è problema – mi disse lui –, alla fine del corso tu sali sul palcoscenico e fai un intervento. Se ti applaudono vuol dire che va tutto bene. Altrimenti sono problemi tuoi, forse ti conviene cambiare mestiere».

Il mio inglese era scolastico, ma decisi di tentare lo stesso.

Preparai l’intervento, lo simulai più e più volte, finché giunse il grande momento. Salii sul palco e raccontai esattamente la stessa storia che avete letto fin qui. Gli applausi scrosciarono.

Truiljo mi invitò a seguirlo a New York, ma i miei soldi erano finiti. Decisi che valesse la pena di tentare. Cercai un lavoro notturno. Andai alla McGraw Hill a mettere i libri sugli scaffali, e vi restai finché non mi sorpresero una notte a leggerne uno di marketing, invece di metterlo a posto. Perso questo lavoro, andai da Macis a scaricare i vestiti dai camion. Ma ne era valsa la pena, perché quando lo incontrai, Truiljo mi diede alcuni consigli che si sono rivelati fondamentali nella mia vita professionale. Me li ricordo ancora adesso, parola per parola: «Bisogna essere qualcuno in qualcosa: torna in Italia e vendi agli altri le tecniche che hai imparato. Siccome poi sei un esperto contabile, riuscirai anche a guadagnare. Se decidi che vuoi disegnare le foglie della pera, fallo. Ma nessuno deve saperle disegnare come te». Prima di andarmene mi disse che aveva un regalo per me: «Guarda sotto la poltrona». Mi alzai e ci trovai un dollaro. L’ultimo insegnamento era il più difficile e il più prezioso: alzati e datti fare – questo voleva dirmi.

Tornato in Italia, seguii i consigli di Truiljo. Mi misi a sondare il mio mercato e incontrai Arrigo Polillo, direttore del personale in Mondadori. Era interessato alla mia esperienza e mi presentò Adolfo Sen, direttore dei periodici, il quale, entusiasmato dalla mia storia, fece chiamare un giornalista di Epoca che mi intervistò. La rivista uscì con un servizio di quattro pagine intitolato: “Avete qualche cosa da vendere? Questo è il vostro uomo”. Era il 1964, con questo biglietto da visita ero pronto per affrontare il mondo. In Mondadori organizzai corsi di formazione per gli operatori della nascente catena di librerie e per i venditori di spazi pubblicitari.

I grandi clienti ormai venivano da soli, ma io sentivo che il mio vantaggio competitivo stava tutto nella qualità dei servizi formativi che avrei offerto. Iniziai ad approfondire la mia preparazione, stabilii una fitta rete di contatti con i migliori formatori internazionali, finché non incontrai Gustav Kaeser, autore del metodo che porta il suo nome, un vero maestro, un’autorità nel mio campo. E fu un incontro decisivo. I suoi metodi, il suo pensiero rappresentavano una rivoluzione nel mondo della formazione alla vendita.

«Se non si verifica un cambiamento nell’attività dell’individuo – sosteneva Kaeser – non si può parlare di formazione, ma solo di acculturamento ». La sua fu una nuova frontiera che ha aperto nuovi orizzonti nella formazione, ma anche nella mia vita e nel modo di affrontarla. Stipulai un accordo di concessione e partnership per rappresentare in Italia il suo metodo. E avviai così anche nel nostro Paese quel processo di rinnovamento e aggiornamento delle forze di vendita che ancora mancava. Non solo determinai un salto di qualità di notevoli proporzioni nella mia attività e nel mio volume d’affari, ma contribuii ad ammodernare i servizi di vendita nel nostro Paese, riportando il cliente al centro del servizio e l’attenzione della formazione sull’uomo e sul suo comportamento.