Customer Experience


Flavio Cabrini Flavio Cabrini

Dal volume N° 47

Customer experience: quel "non so che"

 

Quando nel 1968 la Xerox decise di investire 10 milioni di dollari per l’ideazione e lo sviluppo di politiche commerciali basate sulla soddisfazione dei bisogni dei clienti, in molti giudicarono quello stanziamento un enorme e inutile spreco. Xerox produceva fotocopiatrici dal 1949 e all’epoca godeva di una posizione dominante apparentemente inattaccabile: controllava il 95% del mercato e su qualche dizionario era perfino comparsa la voce Xerox come sinonimo di fotocopiatura. In più, era titolare di 500 brevetti che le garantivano in termini tecnologici un vantaggio giudicato incolmabile. Perché diavolo buttare 10 milioni di dollari dalla finestra quando in tutti gli uffici del mondo c’era un famelico bisogno di fotocopiatrici e possedere la “914” della Xerox, il modello più venduto di tutti i tempi, era il massimo della soddisfazione?
Nel 1982, quattordici anni dopo, la quota di mercato della Xerox finì per assottigliarsi imprevedibilmente al 13%. Canon e Ricoh, le concorrenti giapponesi, avevano preso il sopravvento. La Canon, in particolare, nel 1973 aveva lanciato la prima fotocopiatrice a colori e nel 1982 la prima stampante laser. All’origine del crollo non c’era, tuttavia, semplicemente il fatto che nel frattempo si erano resi disponibili modelli altrettanto o più competitivi: la ragione più profonda era che la clientela alla Xerox aveva voltato bruscamente le spalle. Per tutto il lungo periodo del monopolio la forza vendita della Xerox l’aveva trattata con arroganza e supponenza. Per cui non aspettava altro che si affacciasse all’orizzonte qualcuno che almeno osservasse le elementari norme del galateo.
Insomma, alla Xerox scoprirono a loro spese quanto fosse vero ciò che Henry Ford aveva affermato molti anni prima: “Non è l’azienda che paga i salari: l’azienda semplicemente maneggia il denaro, è il cliente che paga i salari”. E scoprirono, sempre a loro spese, come non fosse più attuale lo slogan “Un buon prodotto si vende da solo”, che pure era stato una sorta di dogma nel dopoguerra.

La cultura dell’attenzione al cliente ha radici antichissime. I mercanti romani facevano puntualmente omaggio di amuleti a chi acquistava cosmetici e essenze, a loro volta quelli greci donavano monili e accessori a chi comprava capi di vestiario. Nei paesi arabi era consuetudine offrire bevande o datteri mentre si intavolava una trattativa. Marco Polo, nei suoi racconti di viaggio, riferì che in Cina i commercianti cospargevano di profumati estratti vegetali i tessuti, creando un’atmosfera che anticipava i concetti di quello che oggi chiamiamo “sensory retailing”.
Eppure, per un’infinità di tempo, il totem dei venditori è stata la cosiddetta “utilità attesa”. Quindi il prodotto: che cosa è, che cosa fa e mettiamoci pure quanto costa. E per un altro bel po’ di tempo nemmeno gli avvertimenti di Dale Carnegie, che predicava il valore delle relazioni, o di Zig Ziglar, che definì la vendita essenzialmente un trasferimento di emozioni, hanno scalzato il prodotto dal piedistallo. Soltanto quando la sovrabbondanza di prodotti similari, se non addirittura simili, ha invaso un mercato in cui l’offerta è diventata superiore alla domanda, più di qualcuno in giro si è accorto che l’attore protagonista non è ciò che viene scelto, ma chi sceglie: il consumatore. Se poi valuterà positivamente, nella sua globalità, l’esperienza di acquisto forse si potrà chiamare anche cliente.

Due parole, in due parole
L’espressione “customer experience”, abbreviata solitamente in CX, non ha bisogno di troppe spiegazioni. Tuttavia una delle definizioni più felici era contenuta in un saggio pubblicato nel 2007 sulla Harvard Business Review a firma di Christopher Meyer e Andre Schwager, due autorità in materia. La inquadravano come “la risposta interna e soggettiva che i clienti danno a ogni contatto diretto o indiretto con un’organizzazione”. Ebbene, questa risposta, strettamente personale, è frutto di un coinvolgimento a più livelli: razionale, sensoriale, emozionale, fisico e spirituale.
Già più di mezzo secolo fa l’economista Lawrence Abbott scrisse: “Ciò che la gente realmente desidera non sono prodotti, ma esperienze che li soddisfino”. La soddisfazione è ciò che un’esperienza lascia quando la si archivia, nasce con le aspettative e conserva una traccia di sé nei ricordi. Perciò la customer experience va ben oltre l’atto di acquisto, perché comprende anche, o principalmente, ciò che lo precede e lo segue, e va ben oltre alla funzionalità del prodotto o del servizio, che pure riveste ovviamente un ruolo primario. Più che il “durante”, cioè la fase in cui matura e si formalizza l’acquisto, contano il “prima” e il “dopo” e conta l’impatto con quanto sta “attorno” al prodotto.

Tutto conta
In sostanza, qualsiasi interazione può rivelarsi critica nel determinare il grado di soddisfazione del cliente. Se c’è un limite nei sistemi di rilevazione della customer satisfaction, è che, pur misurandola, raramente individuano qual è l’incidenza dei singoli fattori che si sommano. Quale sia, spesso neppure il cliente stesso lo sa, perché c’è inevitabilmentee qualche componente di cui non si è del tutto consapevoli, nelle dinamiche con le quali si forma un giudizio. Non sempre sappiamo identificare e dare un nome a quel “non so che” che, d’istinto, provoca piacere o disagio.

Comunque la si metta, ogni cliente ha una scatola nera, ed è impossibile stabilire criteri edonistici o estetici validi per tutti. L’elemento però che nella generalità dei casi si apprezza, sia che si compri o meno, è quello che Verhoef chiama “service interface”: vale a dire tutto ciò che un’azienda fa per offrire il miglior servizio possibile al cliente sia prevedendone le esigenze, sia assicurando il massimo della disponibilità in ogni forma di contatto e in particolare nella risoluzione di problemi o nella gestione di reclami. E qui entrano in gioco le risorse umane e le soft skills che ne caratterizzano l’atteggiamento.

LESSON LEARNED

Cortesia, empatia, ascolto, attenzione ai dettagli, proattività nel problem solving, prontezza nelle risposte, discrezione, proprietà di linguaggio: queste e altre, perché l’elenco è forzatamente incompleto, sono le chiavi per far vivere un’esperienza d’acquisto soddisfacente in cui il cliente non sia relegato al ruolo di spettatore, ma ne sia un partecipe attore.
Oltre che più informato ed esigente rispetto al passato, il cliente del terzo millennio ha nei suoi polpastrelli un potere senza precedenti per influenzare l’immagine di un’azienda attraverso le opinioni che posta sul web. Le stroncature che compaiono su TripAdvisor ne sono il più vistoso esempio.