Stili di lavoro


Flavio Cabrini Flavio Cabrini

Dal volume N° 37

Critica costruttiva: esiste davvero?

Il pastore evangelico John Maxwell, uno degli autori che più ha scritto di leadership, con sottile arguzia osservava che “alcuni dicono che la critica costruttiva è quando io critico te, mentre la critica distruttiva è quanto tu critichi me!”. A nessuno piace essere criticato, eppure in genere le persone non perdono occasione per criticare. A volte più per abitudine che per malanimo.
Paradossalmente, nel mio ultimo libro ho sostenuto che la critica costruttiva non esiste. Il sostantivo e l’aggettivo fanno a pugni tra loro. Una critica contiene in sé un fattore di negatività che, ai fini motivazionali, agisce – come si direbbe in farmacologia – da inibente sull’energia positiva. La riduce o addirittura la spegne. Insomma, a mio avviso esiste semplicemente la critica. Punto e basta.
Come è ovvio, mi sto riferendo al significato che nell’uso comune attribuiamo al termine “critica”, snaturando quello originario, che si limita a definire una valutazione analitica non necessariamente sfavorevole di un fatto, di un comportamento o di un’opinione. A tagliare la testa al toro è però il verbo: “criticare” equivale ormai palesemente, e pressoché esclusivamente, a esprimere un giudizio negativo.

Già Aristotele spiegava ai suoi discepoli che c’è un solo modo per sfuggire alle critiche: non dire nulla, non fare nulla, non essere nessuno. Dunque quale che sia il nostro operato e quale che sia il nostro ruolo, capi o subalterni, genitori o figli, tutti siamo esposti a critiche. La realtà tuttavia è che, magari con la premessa “lo dico a fin di bene”, capita di sentir dire spesso cose terribilmente sgradevoli che infastidiscono, feriscono, offendono e demoralizzano.

Mi rendo conto che negare l’esistenza stessa di una critica costruttiva possa apparire come negare l’Olocausto. Intesa come pura e semplice valutazione argomentata, la critica ha una sua soggettività e una sua oggettività. Trovo, perciò, che costruttive o distruttive siano semmai le intenzioni che la generano e le modalità con le quali viene formulata. Non a caso Jerome Liss, lo psichiatra statunitense scomparso nel 2012 che pure della critica costruttiva ha fatto un perno dei suoi studi, riconosce che per disinnescare gli aspetti tossici occorra seguire alcune avvertenze. La prima sarebbe addirittura “chiedere permesso”. Cioè: posso?
Se ci trasferiamo in un ambiente di lavoro, chi è a capo di un team di venditori non è certo tenuto a osservare questo tipo di cautela. Intervenire per indirizzarne e correggerne i comportamenti non costituisce un’ingerenza ma una responsabilità, alla quale non può sottrarsi.


• C’è una regola comunque che andrebbe sempre rispettata: scegliere un momento e un luogo adeguati. Un errore imperdonabile, ad esempio, è approfittare di una riunione per tartassare chi ha fatto registrare risultati scadenti: richiami di questo tenore vanno assolutamente rivolti in incontri individuali, nel chiuso di una stanza.


• Un’altra regola è certamente quella di attenersi ai fatti, e non farsi prendere dalla tentazione di impartire lezioni di moralismo.


• A proposito poi di disinnescare, quel fattore di negatività che è comunque insito in una critica, per quanto legittima, può essere stemperato con la forza di un linguaggio positivo. C’è una certa differenza fra il dire “non mi è piaciuto” e il dire “avrei gradito”, fra il dire “è un vero disastro” e il dire “si può far di meglio”.


La mia convinzione, convalidata dall’esperienza, è che ogni essere umano nelle attività in cui è impegnato desideri fare del proprio meglio e che cercherà di farlo fino a quando qualcosa o qualcuno non interverrà a demotivarlo. Una conseguenza, anche questa sperimentata sul campo, è che, se si lavora sui lati positivi di un individuo, questi tendono a svilupparsi, così come se ci si concentra sui lati negativi questi tendono perfino a ingigantirsi. Troppi manager purtroppo sembrano ignorarlo: sono prodighi nel dispensare critiche e avari di elogi. Ciò finisce per svilire il presunto effetto correttivo di una critica, facendola sembrare come dettata soltanto da una volontà di colpevolizzare.
Credo sia opportuno sottolineare che, quando ci sta, il far precedere un apprezzamento a una critica (“Ho visto che stai prendendo la cosa sul serio; quello che vorrei fosse migliorato...”) facilita un franco confronto e rende più propensi ad accettare, e talora perfino a condividere, la critica stessa.

Stephen Covey suggeriva: “Diventate una luce, non un giudice; un modello, non un critico”. È una frase che mi dà lo spunto per un’ultima riflessione. Una critica è decisamente meglio accolta quando viene accompagnata da un’indicazione su una possibile soluzione e dalla dimostrazione che esistevano alternative che non sono state prese in considerazione. Suppongo sia esattamente questo che Covey intendeva esortando a diventare una luce.