La conquista del polo Sud insegna: tattica o strategia?
Qualche settimana fa ho parlato di strategia nella mia raccolta di “articles” su Linkedin (#HYSTORYTELLING) e di ciò che distingue la strategia dalla tattica. Non mi ripeto, tranne che per ricordare brevemente le definizioni che allora ho fornito.
La strategia identifica gli obiettivi primari che assicurano il successo di un intero progetto; è l’insieme delle scelte fatte dai vertici aziendali con riferimento al business nel quale l’azienda dovrebbe operare e delle capacità distintive, prima fra tutte il vantaggio competitivo, che dovrebbe possedere.
La tattica si pone obiettivi più limitati per sfruttare situazioni specifiche nell’ambio della strategia.
Di conseguenza la strategia guarda al lungo termine con modifiche poco frequenti, mentre la tattica considera i tempi brevi per trarre vantaggio dalle condizioni di mercato.
Secondo Michael Porter, professore alla Harvard Business School e uno dei più grandi esperti internazionali di marketing, la strategia consiste nel “fare scelte e compromessi per essere deliberatamente differenti nei confronti della concorrenza”.
Certo la strategia non è la panacea per evitare la sconfitta: come ha detto Winston Churchill, “per quanto la strategia sia bella, non dovresti mai dimenticarti di controllare di tanto in tanto i risultati”. Infatti per conseguire il successo, c’è un altro elemento da tener presente oltre alla strategia, forse ancora più importante. Mi riferisco all’esecuzione. L’esecuzione consiste in tutte le decisioni e le attività che sono necessarie per convertire le scelte strategiche di un progetto in una realtà vincente.
Sogno o son desto?
Per comprendere a fondo tutto ciò può essere utile un parallelo con un’altra coppia di concetti molto più conosciuti: sogno e realtà. Dentro il sogno c’è un completo universo. Il sogno ha la stessa profondità che sperimentiamo quando siamo svegli. Tutto ciò che compare nel sogno è creato dalla mente umana ed è molto spesso il modello fedele di ciò che desideriamo si verifichi nella vita reale. Ora, nel parallelo il sogno è la strategia, mentre l’esecuzione è la creazione di una realtà che lo riproduca fedelmente.
Come tutte le realtà da creare, l’esecuzione richiede molti sforzi, sia tecnici che di comportamento, per consolidare il vantaggio competitivo. Colin Powell ha detto: “Un sogno, e così l’esecuzione, non diventano una coerente realtà per un effetto magico; richiedono sudore, determinazione e lavoro”.
Come faccio normalmente nei miei articoli su Linkedin, vi propongo adesso una storia, possibilmente “vera” come in questo caso, che illustri i concetti relativi all’esecuzione che vi ho appena indicato per aiutarvi ad assimilarli e a ricordarli.
IL RACCONTO DI AMUNDSEN
Il 14 dicembre del 1911, oltre cento anni fa, Roald Amundsen e i suoi compagni provenienti dalla piccola Norvegia, che era divenuta indipendente solo da qualche anno, battevano il team dell’impero britannico, sotto la guida di Robert Scott, nella conquista dell’ultimo continente inesplorato della terra, l’Antartide. Gli inglesi non presero bene la sconfitta. La stampa etichettò Amundsen come “ladro” per essersi impadronito di un onore che ritenevano spettasse a Scott e all’impero. Il fatto che Amundsen si fosse servito di cani da slitta fu visto come una condotta antisportiva. Per decenni nel Regno Unito Scott fu un eroe nazionale. Il suo viaggio, che nella realtà fu un disastro, venne presentato in un clima di romanticismo spinto, e le lezioni impartite dal suo esito alla Gran Bretagna post-vittoriana non furono assimilate in maniera veritiera.
(Roald Amundsen, Wikipedia)
Quel giudizio fu certamente ingiusto nei confronti di Amundsen, che era pur sempre un esploratore esperto e coraggioso. Cosa più importante: furono ignorate le differenze nella qualità dell’esecuzione fra Amundsen e Scott nelle loro rispettive spedizioni. Queste differenze condannarono quest’ultimo e diedero il successo al primo.
(Amundsen con la bandiera norvegese e la sua muta di cani)
Erano una coppia di personaggi di età molto vicina (Amundsen aveva 39 anni, Scott 43) e con esperienza, almeno sulla carta, abbastanza simile.
Amundsen aveva un’antica passione per l’esplorazione, ed era diventato negli anni un esploratore professionale. Aveva sperimentato tutto ciò che poteva. Si era cibato con la carne cruda dei delfini per verificarne l’apporto energetico e per prepararsi a sopravvivere in caso di naufragio. Aveva preparato il suo fisico a sostenere sforzi elevati. Per un periodo di tempo aveva vissuto con gli eschimesi che avevano centinaia di anni di esperienza accumulata in un clima inospitale per il ghiaccio, il freddo, la neve e il vento. Da loro aveva appreso l’uso dei cani per il traino delle slitte.
La sua filosofia era quella di prepararsi per tutte le evenienze in modo che – se le condizioni fossero diventate avverse – avrebbe potuto sempre attingere da una importante riserva di forza e di esperienza.
(Robert Scott preferì i cavalli per la sua spedizione, NAtional Geographic Italia)
Il primo successo nelle esplorazioni che Amundsen aveva conseguito era stato l’apertura del “passaggio a Nord-Ovest” che aveva per secoli rappresentato un ostacolo insormontabile per la navigazione. Con un piccolo veliero di sua proprietà, nel 1903 e con un equipaggio di sei persone, era riuscito nell’impresa diventando un eroe nazionale e acquistando un ruolo primario fra gli esploratori polari.
La sua esperienza diretta e indiretta gli insegnò che gli esploratori devono essere cauti. Devono essere sempre flessibili e pronti ad adattare obiettivi e piani alle condizioni reali. Quando le condizioni non sono quelle giuste, è meglio tornare indietro piuttosto che far conto sulla speranza e la fortuna. Era convinto che la cattiva sorte fosse il risultato di una insufficiente preparazione.
Queste qualità furono abbondantemente messe in luce nella sua spedizione al polo Sud. Iniziò il suo viaggio nei primi giorni del settembre 1911. A casa delle pessime condizioni climatiche, annullò il primo tentativo nonostante l’opposizione dei suoi compagni che non volevano dare un vantaggio a Scott. Amundsen invece insistette, e i norvegesi non ripartirono fino alla metà di ottobre. Gli eventi successivi gli diedero ragione: il secondo viaggio infatti fu molto più agevole di quello che sarebbe stato il primo e infinitamente più facile di quello di Scott.
Scott aveva una minore esperienza di questi climi e rispetto ad Amundsen non si era dedicato a nessuna preparazione seria. Era stato un ufficiale di marina la maggior parte della sua vita, specializzato nell’artiglieria. La sua sventurata impresa del 1911 era soltanto la sua seconda spedizione polare. Nonostante la mancanza di esperienza, era anche poco propenso ad ascoltare coloro che invece l’avevano. Decise di non servirsi dei cani per trainare le slitte nonostante i consigli di Amundsen e dell’esperto esploratore polare Fritjoff Nansen (anche Nansen aveva imparato dagli eschimesi che i cani erano la soluzione ideale). Trascurò l’uso degli sci, anche se era stato dimostrato che assicuravano una maggiore velocità. Invece scelse due alternative che non erano state mai provate nelle condizioni polari: i pony e le slitte motorizzate. Entrambe furono un fallimento. A differenza dei cani, i pony sudano e richiedono costante attenzione: devono essere coperti se si vuole evitare l’ipotermia, cioè quella condizione in cui il corpo raggiunge basse temperature a causa dell’evaporazione; inoltre normalmente non mangiano carne per cui era necessario trasportare anche il loro cibo (i cani possono cibarsi anche della carne di foche e pinguini, molto comuni in Antartide, e comunque Amundsen aveva previsto di uccidere alcuni dei cani più deboli per alimentare quelli più forti, se fosse mancato il cibo). Quanto alle slitte motorizzate, non erano state provate nelle condizioni più estreme del polo Sud, e in gran parte si bloccarono nei primi giorni e furono abbandonate. Il carico dovette essere portato a spalle dai membri della spedizione, che trascinarono a mano anche alcune delle slitte.
Scott peggiorò la situazione legata a queste scelte sbagliate prendendo decisioni logistiche e organizzative che riflettevano il fatto di non aver compreso quanto critiche fossero le condizioni polari. I depositi di vettovaglie più a sud furono creati a poche miglia di distanza dai punti che erano stati scelti inizialmente e divulgati. Questo errore apparentemente piccolo fece la differenza fra la vita e la morte per quei membri della spedizione che credevano di avere raggiunto i punti previsti. A differenza di Scott, Amundsen invece si creò enormi “protezioni” per gli eventi imprevisti: non solo imbandierò il deposito principale, ma collocò 20 segnali neri (facili da vedere sullo sfondo della neve) a marcare gli incrementi di miglia su entrambi i lati del percorso, così da non essere messo fuoristrada nel caso di una tormenta di neve. Amundsen inoltre riempì il deposito più a sud con circa tre tonnellate di vettovaglie per le cinque persone impegnate nel tratto finale della spedizione (l’intero team incluso il personale di supporto raggiunse il numero massimo di 19), mentre invece Scott ne immagazzinò soltanto una tonnellata per 17 persone (tante furono quelle che alla fine giunsero al polo Sud).
(Il libro che contiene i diari non modificati dei due esploratori)
La preparazione militare di Scott ebbe una parte importante nel disastro. Era portato a insistere per accelerare i tempi della missione piuttosto che cambiarli, come se la perseveranza e il coraggio da soli potessero fare la differenza fra successo e fallimento. Come tutti i militari, era fortemente competitivo. Poiché era impegnato in una corsa, la spinse al massimo, nonostante il peggioramento delle condizioni climatiche. Il risultato fu che raggiunge il polo soltanto per vedere sventolare la bandiera norvegese piantata lì prima da Amundsen 34 giorni prima.
Amundsen non sapeva quali problemi avrebbe incontrato, ma aveva organizzato l’intera spedizione in modo da ridurre l’impatto delle sorprese al minimo. Il 15 dicembre del 1911, in una giornata di sole con un leggero vento contrario e una temperatura di dieci gradi sotto zero, Amundsen con i suoi compagni raggiunse il polo Sud. Dopo avere innalzato la bandiera norvegese, eresse una tenda e scrisse una lettera indirizzata al re, descrivendo la loro impresa. Lettera che lasciò, opportunamente protetta all’interno della tenda, in una busta indirizzata a Scott nel caso in cui avessero avuto dei problemi sulla via del ritorno. Non si immaginava che Scott e il suo team, trascinando a mano alcune delle sue slitte, fossero oltre 600 chilometri indietro. Scott non si era preparato, e sul suo diario di bordo più volte si lamentò della sua sfortuna. Più di un mese dopo, il 17 gennaio del 1912, finalmente arrivò al polo, e si trovò davanti agli occhi la bandiera della Norvegia. Nel suo diario scrisse: “Abbiamo avuto una giornata tremenda. Questo è un posto spaventoso ed è per noi deprimente aver faticato tanto senza essere riusciti ad arrivare per primi!”
Quello stesso giorno Amundsen aveva già percorso 900 chilometri in direzione nord, raggiungendo il suo deposito principale con solo otto giorni di marcia ancora da compiere per ritornare. Il rientro alla base avveniva il 25 gennaio, esattamente il giorno che aveva previsto nel suo piano.
Scott invece quel giorno iniziava la marcia di ritorno, a oltre 1.200 chilometri dalla base, proprio quando il clima volgeva al peggio. Avendo consumato le sue vettovaglie, intorno alla metà di marzo Scott, esausto e depresso, si impantanava con i suoi uomini in una marcia senza speranza. Otto mesi più tardi, una squadra inglese di soccorso trovava i corpi congelati di Scott e di due suoi uomini in una piccola tenda coperta dalla neve a soli 15 chilometri dalle vettovaglie.
Il commento finale che Amundsen ha lasciato nelle sue memorie (pubblicate con il titolo di The South Pole) è una efficacissima sintesi dell’importanza dell’esecuzione:
La vittoria attende colui che ha tutto in ordine – la gente la chiama fortuna. La sconfitta è sicura per chi ha trascurato di prendere le necessarie precauzioni in tempo; questa è chiamata sfortuna.
LESSON LEARNED
Di fronte al luogo comune dell’importanza attribuita alla strategia, Stephen Covey, il grande scrittore ed educatore statunitense, ha commentato: “La maggioranza dei leader sarebbe d’accordo sul fatto che è meglio avere una strategia media con una esecuzione superba, piuttosto che una strategia superba con una cattiva esecuzione”.