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Dal volume N° 29

Si vince e si perde insieme

“MARADONA” DELLA PALLANUOTO E POI MEMBRO DELLO STAFF DEL BARCELLONA, MANUEL ESTIARTE RACCONTA LA SUA ESPERIENZA A FIANCO DEL CT JOSEP GUARDIOLA DA CUI PRENDE NOME IL FAMODO METODO DI ALLENAMENTO E TEAM BUILDING

PER GENTILE CONCESSIONE DI WOBI

«Voglio raccontarvi delle cose eccezionali che ho vissuto nella mia esistenza, e l’orgoglio che ho provato vivendole. Da un lato la pallanuoto, tutta la mia vita. Con la Spagna siamo passati dall’essere una squadra mediocre al diventare campioni olimpici e campioni del mondo. Poi ho accompagnato il mio migliore amico, Josep Guardiola, nel cammino che ha intrapreso con quella che per me è la più grande squadra di calcio al mondo, il Barcellona».

Per Manuel Estiarte lo sport è vita, cultura. Lo sport è tutto. Ma è anche ambizione, comunicazione, leadership, rispetto, umiltà, valori umani. Pilastri sui quali possiamo costruire anche la nostra azienda.

Nato a Manresa, in Spagna, nel 1961, Estiarte rimane nella storia come un prodigio: nominato per sette volte miglior giocatore di pallanuoto al mondo, ha partecipato a sei Olimpiadi segnando più di qualsiasi altro atleta nella storia dei giochi olimpici (127 punti). Giocatore chiave nella conquista della prima medaglia olimpica spagnola di pallanuoto ai Giochi del 1996, è passato poi al mondo del calcio e ha lavorato a stretto contatto con Josep “Pep” Guardiola, durante i quattro anni di “Pep” nello staff del Barcellona, contribuendo alla definizione del celebre “metodo Guardiola”.
Un metodo di allenamento ma anche una filosofia di vita, che promuove fiducia, cameratismo e la padronanza delle azioni come strumento per la leadership e il lavoro di squadra.
Manuel Estiarte si è stabilito in Italia, a Pescara.

«Se rileggo la mia vita, trovo due aspetti che ritengo importanti: il rispetto e la formazione del gruppo.
Vi faccio due esempi.

Il primo esempio lo ricavo dalla mia esperienza con la pallanuoto spagnola. Quando ho iniziato, la pallanuoto era quasi esclusivamente catalana. Il destino ha voluto che in Nazionale arrivassero quattro ragazzi di Madrid. I madrileni sono forti, veloci, quasi arroganti. Noi catalani, invece, siamo di natura più calmi, attenti al lavoro quotidiano, arriviamo ai risultati più lentamente. Non è stato facile all’inizio: erano prepotenti. Mi ricordo il primo discorso pre partita: ero il capitano, sapevo che avremmo perso, ho fatto un discorso banale, “perderemo, limitiamo i danni”. I madrileni hanno alzato la voce e mi hanno zittito. Ovviamente abbiamo perso, ma il secondo tempo è stato interrotto due volte per rissa, iniziata da loro. E così non andava. Potevamo continuare ognuno per la sua strada, ma abbiamo deciso di imparare qualcosa da loro, e loro da noi. Loro hanno imparato a lavorare di più, noi a osare di più. È la cosa più difficile: accettare i difetti e imparare. Abbiamo iniziato a crescere e siamo diventati dei campioni. Abbiamo avuto il privilegio di vivere la partita più bella del mondo, la finale delle Olimpiadi in Spagna, a casa, contro voi italiani. E abbiamo perso. Se mi chiedono, dopo tutti questi anni, cosa cambierei, risponderei il mancato rispetto dimostrato per gli italiani. Prima della partita, durante il riscaldamento, in un momento di tensione e angoscia, dove di solito regna il silenzio, noi spagnoli abbiamo cominciato a insultare gli italiani, che sono rimasti in silenzio, concentrati. Per anni ho creduto che abbiamo mancato di rispetto agli italiani e che per questo abbiamo perso. Ho incontrato i miei vecchi compagni dopo 20 anni, e uno di loro mi ha detto che nel tunnel noi abbiamo avuto paura, e questo ci ha fatto perdere. Siamo
stati deboli. Bisogna imparare a sconfiggere la paura. Dopo la partita, però, nessuno di noi ha recriminato la sconfitta, non ci siamo accusati a vicenda, abbiamo imparato dai nostri errori, e lì è nata la squadra. Insieme abbiamo sconfitto la paura e quattro anni dopo abbiamo vinto. Tutti insieme, perché si vince e si perde insieme. Questo
per me è lo sport».

«Passando al secondo esempio. Ricordo che quando Josep Guardiola, a 37 anni, è stato chiamato dal Barcellona, era un momento difficile. Inizialmente fui molto sorpreso da questo giovane ragazzo che si buttava nell’avventura di allenare
una squadra di calcio. E “Pep” mi ha stupito, per il modo in cui riesce a prendere delle decisioni con tutto il mondo che lo guarda. Non ha un metodo, ma uno stile di vita, fatto di decisioni. Ne condivido alcune qui.
Guardiola ha iniziato con il Barcellona, e tutti lo sanno, ma nessuno ricorda i suoi primi anni nelle categorie giovanili. C’ero quando, alla fine della sua carriera come giocatore, gli hanno proposto la nomina di direttore generale di tutto il settore giovani, e lui ha rifiutato. Voleva continuare ad allenare, e lo ha fatto.
Anche se aveva giocatori forti in squadra, Josep non temeva di lasciarli in panchina, se aveva altre idee in mente. Una decisione del genere, oltre che lungimirante, è molto rischiosa. “Pep” rischiava. Alla prima partita nelle giovanili ha avuto degli screzi proprio con i due giocatori più forti. Seguendo il consiglio di un ex calciatore che stimava moltissimo, non ha fatto giocare chi gli creava dei problemi. Ha perso la prima partita, ma ha vinto il campionato, passando di categoria. Ecco l’importanza di seguire i consigli di chi rispettiamo.
Poi, quando il Barcellona è arrivato a essere la migliore squadra al mondo, con il miglior giocatore al mondo, nel miglior momento al mondo, Josep Guardiola ha deciso di andarsene. Tutti lo ammiravano e lui se ne è andato. Aveva capito che poteva dare moltissimo, ma non tutto. E non era giusto per la squadra, per la società, per i tifosi, restare senza dare tutto. Quindi ha fatto un passo indietro e ha lasciato la squadra a qualcuno che – magari grazie a un entusiasmo rinnovato – potesse dare tutto. Un gesto in cui ho letto generosità, altruismo, sacrificio».
«Per questo, quando mi chiedono in che modo Guardiola si muove all’interno della squadra, io rispondo sempre che sceglie la maniera più difficile.


Ci sono tre modi per gestire una squadra come il Barcellona, così come si farebbe con un’azienda. Due sono estremi, uno è “nel mezzo”.
Nel primo caso l’allenatore assume un atteggiamento dittatoriale, senza confronto. Contano solamente il suo giudizio e la sua voce. È una strada che porta successi, ma che però, per chiari motivi, non ho mai condiviso.
Nel secondo caso, sempre estremo, si guida la squadra come fosse un amico, dando confidenza. Il pericolo qui è di perdere intensità e di non sapersi imporre. All’inizio è un metodo che porta alla vittoria; poi il rischio è di farsi sopraffare dalle individualità della squadra.
E poi c’è la terza maniera, quella di Guardiola. In questo caso si riesce a chiedere e a ottenere intensità e professionalità. L’allenatore per primo lavora dieci ore al giorno e dimostra impegno. Guardiola esigeva cultura dai giocatori, voleva non soltanto delle eccellenze sportive, ma delle persone ricche di umanità, che potessero trovare
uno spazio fuori dal campo. Guardiola dava e chiedeva sincerità, un gesto molto difficile in una squadra dominata da individualità forti.
Il segreto è far capire al gruppo che il benessere del singolo è importante, qualcosa a cui si tiene davvero. Io avevo il privilegio di poter condividere allenamenti e spogliatoio con i ragazzi, che mi raccontavano tutto, pur sapendo che ero un uomo
dell’allenatore. Ogni mattina Guardiola mi chiedeva come fosse il clima in spogliatoio, come stavano i ragazzi. E quando facevo capire che qualcuno aveva dei problemi fuori dal campo, allora Guardiola cercava di stargli il più vicino possibile, per farlo arrivare sereno alla partita. È l’umanità di Guardiola che lo ha fatto diventare un grande
allenatore.
Guardiola si circondava di poche persone, ma ognuna – dal fisioterapista al medico – aveva un compito e sentiva di essere importante. Blindati e protetti dal mondo esterno, tutti erano fondamentali.
Anche nella scelta dei giocatori, preferiva averne pochi – con il rischio di infortuni – ma
farli sentire motivati e protagonisti, e sceglieva gli altri giocatori dal vivaio del Barcellona per far crescere nuovi talenti e spronarli con la vicinanza di grandi talenti. “Pep” crede nella perseveranza giorno dopo giorno, dettaglio dopo dettaglio. In
questo modo si riesce a costruire una strategia vincente, coinvolgendo tutti e con l’attenzione a tutti i particolari».


«Cosa dire sulla leadership? Vi racconto prima la mia esperienza. Quando a 18 anni ho partecipato ai primi Giochi olimpici, sono diventato capocannoniere e mi hanno subito incoronato leader. Ero troppo giovane per essere un leader, ero ambizioso e concentrato su me stesso. Con gli anni mi sono accorto che quando ho imparato a lavorare sul gruppo, ho giocato meglio e ho ottenuto di più. Sono anche riuscito a divertirmi di più. Per Guardiola, considerato il più grande leader spagnolo a livello sportivo, la leadership non è qualcosa che si può raccontare o spiegare. Chi è il leader di una squadra? È il giocatore comunicativo, che incita i compagni, che soffre, che si impegna al massimo? O forse è la persona che riesce a ottenere un risultato dal compagno, che condivide, che si preoccupa per gli altri, non solo per se stesso? Ovviamente questo secondo è il leader».
«Vi racconto due momenti che ho vissuto con Guardiola e che dimostrano la sua capacità di essere un motivatore e un comunicatore. Possono esservi utili.
Il primo fu a una finale di Coppa del mondo, contro una squadra argentina. Guardiola cede la parola a Gabi Milito, calciatore argentino, fermo da
due anni per infortunio, per fargli descrivere cosa avevano nel cuore in quel momento i suoi connazionali.
Questa è la capacità di motivare, di coinvolgere. Ha funzionato.
Un altro momento difficile da dimenticare è stato quando uno dei nostri giocatori, Abidal, ha scoperto di avere il cancro. Non lo abbiamo detto subito alla squadra, lo sapevamo in pochi, la famiglia, il medico e Guardiola. Abidal ha continuato
a giocare, d’accordo con Guardiola, con cui aveva deciso di proseguire finché fosse stato in grado. Abidal ha giocato 13 partite di fila, fino all’operazione. Ha giocato non per essere un caso, una tragedia umana, ma perché il calcio è la sua vita. Quando Guardiola ha raccontato di Abidal alla squadra, ha mostrato i veri valori della vita. Non
ha calcato la mano su un caso drammatico. Ha ricordato quali sono i problemi, quali sono le cose su cui riflettere, qual è l’essenza della vita».

«Parlandovi di Guardiola, non voglio darvi consigli o lezioni di vita, ma ricordarvi, come farebbe lui, che lavorare con passione è il privilegio più grande. Essere felici del proprio lavoro è un dono. Dunque non perdete mai di vista l’obiettivo. È il percorso a rendervi migliori, non solo il risultato finale».

Trattate i vostri
uomini come
professionisti seri
e faranno di tutto
per non deludervi.
(Ralph Waldo Emerson)