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Afsoon Neginy Afsoon Neginy

Dal volume N° 55

Il marketing è morto? Tra oceani blu, cervello ed emozioni

COSA RESTA, COSA CAMBIA,
COSA SERVE, COSA FARE

Iniziamo con alcune domande.
Come e cosa è cambiato nel marketing nel corso del tempo fino ai giorni nostri?
C’è più scienza o arte nel marketing, quando comunichiamo un brand, un prodotto, un’azienda?
Serve ancora il marketing?
C'è ancora una ragione per cui le aziende devono avere reparti di persone che analizzano e studiano il mercato, prevedendo l'andamento di un certo tipo di trend e scommettendo nel successo di un prodotto o di un servizio?
Come si riesce a sopravvivere a tanta concorrenza in un mondo così affollato di marche e di prodotti? Mai come ora siamo stati davanti così tanta scelta. Come si riesce a produrre una idea differenziante?

Qualcuno sostiene che siamo nell’era del post marketing: il marketing vero è morto, dicono, a causa dell’iperscelta e dell’iperconnessione del consumatore che automaticamente diventa infedele, avendo troppe occasioni di contatto con altri prodotti molto simili e magari meno costosi di quelli che usa abitualmente.
L’ampia scelta ha reso impossibile o molto difficile la previsione sulle probabilità di successo di un nuovo prodotto o servizio. Come differenziarsi e lanciare un prodotto di successo in un oceano enorme pieno di “attraenti pesci colorati”?

INTANTO BISOGNA DIFFERENZIARSI

Non parliamo di un argomento nuovo, ma di qualcosa che viene trattato da quando è stato inventato il termine marketing nel 1959. Furono Giancarlo Pallavicini e successivamente Philip Kotler a definire il marketing:

un processo di economia e di sociologia che studia i bisogni palesi e non palesi dei consumatori.


Da allora, il mercato ma soprattutto i consumatori hanno fatto un grande progresso, e sull’argomento sono uscite numerose pubblicazioni che trattano le leve per la differenziazione di una marca, ovvero l’utilizzo di tutte le armi necessarie affinché in un contesto affollato e competitivo una marca possa essere percepita come un brand realmente differente e differenziante.
Quando si parla di differenziazione, si parla automaticamente di brand positioning, cioè come adottare una strategia per posizionare la marca in maniera differente rispetto ai concorrenti. Il posizionamento di un brand è un incrocio tra il prezzo (che bisogna vedere se il consumatore target è disposto a pagare) e la qualità percepita. Per qualità percepita si intende come il consumatore percepisce il brand e tutti gli elementi che lo caratterizzano (dalla qualità dei suoi componenti al packaging, dal servizio post vendita al canale che lo distribuisce).
Posizionare un brand prevede:
•    la definizione del contesto (individuando i competitor e ciò che dicono, capendo cosa ne pensano i clienti);
•    l’inserimento di un idea differenziante;
•    avvicinare il mercato con qualche test per verificare la validità dell'idea differenziante.

Tutto questo rende il processo molto matematico e poco spontaneo. Bisogna però ricordare che molti imprenditori di successo non avevano alle spalle studi universitari di marketing, e di converso imprenditori esperti di marketing non sempre sono riusciti ad avere idee di successo.

RAGIONIERE, SCIMMIA O RETTILE?
IL CERVELLO LO SA

Forse il posizionamento di un brand ha più a che vedere con ciò che si fa nella testa dei potenziali clienti rispetto a ciò che si fa sul prodotto.
Infatti Jack Trout, autore di best seller sull’argomento, afferma che ci sono tre tipi di posizionamento:
•    quello funzionale che lavora sul problem solving, analizzando tutti gli aspetti oggettivi e concreti del prodotto (vantaggi, caratteristiche e il reason why);
•    quello esperienziale legato alla sensorialità del prodotto, alla stimolazione dei sensi che poi attivano anche la parte cognitiva;
•    quello simbolico legato all'ego, all’identificazione della propria immagine e al rafforzamento del senso di appartenenza.

Il posizionamento funzionale parla alla neo corteccia, la parte razionale del cervello, conosciuta anche come “cervello del ragioniere”. Elabora i dati, i numeri, valuta i pro e i contro.
Sicuramente ci sono persone che ponderano attentamente le loro decisioni e fanno una valutazione di pura convenienza; in genere, però, la parte del cervello che prende decisioni è il sistema limbico, il cosiddetto “cervello scimmia”, sociale, curioso, empatico e relazionale.
Abbiamo anche un’altra parte nel cervello, il cosiddetto “cervello antico” o rettile che è situato nel midollo allungato e nel cervelletto. Ci accumuna agli animali, ed è responsabile delle nostre reazioni più istintive e immediate. Quando ci sentiamo in pericolo, reagiamo praticamente solo con questa parte che è stata preparata per la difesa e il combattimento (fight), per la fuga (fly) oppure per restare immobili (freeze). Le cosiddette tre “f” sono l’unico linguaggio compreso dal cervello antico.

Di norma il cervello rettile e il sistema limbico (cervello scimmia) sono impermeabili a qualsiasi tipo di ragionamento puramente razionale, però il cervello scimmia può mediare tra il cervello rettile e il cervello razionale. Oggi sappiamo che il 90% delle nostre decisioni e dei nostri acquisti o preferenze verso una marca viene gestito da quelle parti del cervello che sono sorde al linguaggio logico e razionale. Questo forse spiega il successo naturale di tante aziende che hanno agito in questa direzione.

Quindi per posizionare una marca in maniera distintiva e per suscitare l’interesse, non basta comunicare con il solo linguaggio logico, parlando di benefici, perché così facendo si parla solo al “cervello ragioniere”; è necessario abbinare elementi che arricchiscano la comunicazione con analogie, metafore che creino un feeling con il consumatore in modo da fidelizzarlo al primo acquisto. Una lunga lista degli ingredienti potrà confermare razionalmente la nostra scelta, una volta che siamo già stati colpiti da quella marca.

È chiaro che per ognuno di noi ci sono prodotti commodity per i quali l’unica variabile di scelta è il prezzo o la facilità di reperimento, ma per tutti gli altri è fondamentale l’impatto della comunicazione sul nostro cervello. Per studiare intimamente i processi decisionali può essere utile, ad esempio, individuare le variazioni che si producono a livello cerebrale durante il processo di acquisto: stiamo parlando del neuromarketing in cui le conoscenze del marketing tradizionale si fondono con la neurologia e la psicologia. Il neuromarkenting unisce infatti il rigore scientifico necessario per misurare il processo decisionale alla fantasia e all’approccio artistico necessario per posizionare bene una marca.
La comunicazione ha quattro dimensioni:
1.    relazionale;
2.    emotiva;
3.    comportamentale;
4.    logica.

IL CASO DOLCE & GABBANA
Abbiamo visto proprio di recente come una comunicazione pubblicitaria sbagliata della nota casa di moda Dolce & Gabbana abbia determinato pesanti ripercussioni sull’immagine della firma, tanto che l’azienda ha dovuto cancellare un’importante sfilata in Cina e rivedere i propri piani in quel mercato, molto importante sia strategicamente sia per il peso del fatturato. Mancata sensibilità e poca attenzione alla cultura e ai valori del popolo cinese hanno provocato una decrescita vertiginosa delle vendite.
(Nello spot incriminato una modella cinese, con abito e gioielli sfarzosi, prova mangiare cibi italiani con le bacchette. La critica è stata di ironia smaccata e anche un tocco di malizia… ndr)


•    L’immagine di un brand spesso è qualcosa di astratto, non preciso e lavora con la percezione dei consumatori.
•    L’immagine di un brand è qualcosa di unico e magico: a volte può essere rappresentata con un racconto, una storia d’amore tra chi produce e chi beneficia del prodotto, usando le stesse tecniche della narrativa e dello storytelling.
•    L’immagine di un brand e la storia raccontata fanno da collante tra quello che si vede e ciò che viene evocato a livello cognitivo.

Quando c’è un forte allineamento tra l’immagine di un prodotto, la storia raccontata e la promessa mantenuta, vengono innescate sensazioni forti in grado di trasformare un normale brand in un “love mark”, e cioè in una marca da amare per tanto tempo.

Non tutti però pensano alla centralità dell’immagine e al potere della comunicazione come leva principale del successo. Michael Porter, autorevole esperto di marketing e di pianificazione strategica, dà più enfasi agli elementi razionali e specifici, per definire il vantaggio competitivo di una azienda o di una marca. Secondo il suo pensiero il vantaggio di una marca è la somma algebrica di molteplici forze quali la forza dei fornitori, il potere di acquisto dei clienti, la minaccia dei prodotti o dei servizi sostitutivi, la probabilità di entrata di nuovi concorrenti e la forza con la quale gli stessi concorrenti competono tra di loro. Anche qui entriamo nel puro calcolo, ma la storia del successo di molte startup dimostra che spesso queste strutture non avevano nemmeno le risorse per studiare a fondo i concorrenti o analizzare il mercato; semplicemente hanno avuto un’idea vincente e distintiva che è stata comunicata in modo da avere un impatto.

Da qualche anno si parla di una strategia chiamata “oceano blu” come modalità innovativa e vincente per differenziarsi. Secondo gli autori di questo best seller di marketing, W.Chan Kim e Renèe Mauborgne, tutte le imprese operano in mercati che sono metaforicamente visti come due oceani paralleli, uno di colore rosso e uno di colore blu.
L’oceano rosso è il mercato dove si consuma una continua lotta tra i competitor per aggiudicarsi maggiori fette di consumatori. Un mercato senza innovazione, basato sulla sconfitta della concorrenza e caratterizzato da bassi margini di profitto.
L’oceano blu invece è il mercato dell’innovazione, dove le decisioni manageriali determinano la nascita di nuovi servizi e di nuovi prodotti e la creazione di nuovi mercati. In sostanza, non si punta solo a rubare clienti alla concorrenza, ma si guarda anche ai non clienti, cercando di interpretare in modo diverso qualcosa che già esiste.

Gli autori hanno studiato centinaia di aziende di successo e hanno scoperto che tutte hanno fatto qualcosa di diverso nel loro modello di business. Queste aziende hanno avuto il coraggio di abbandonare ed eliminare completamente qualcosa investendo su qualcosa d’altro.
Ad esempio il Cirque du Soleil ha deciso che in un circo si può fare a meno degli animali. RyanAir ha deciso di fare a meno delle agenzie di prenotazione dei biglietti, dei pasti a bordo se non a pagamento e degli aeroporti principali che hanno costi più alti, per poter ridurre al minimo il prezzo del biglietto aereo.
In tutti questi modelli il focus è stato quello di indentificare l’USP (unique selling proposition) ovvero quella cosa che veramente conta per il cliente. Per uno che viaggia la cosa più importante è poter viaggiare e muoversi a costo basso, anche se ciò comporta la scomodità di recarsi a un aeroporto più lontano o di non avere pasti inclusi nella tariffa.

Il modello di strategia “oceano blu”, proposto 15 anni fa, ha rivoluzionato il modo di pensare di tantissime aziende e ha introdotto dei nuovi concetti, ma se ci pensiamo bene, ha qualcosa di simile al concetto di USP, la cosiddetta argomentazione di vendita, ovvero quella argomentazione che rende un prodotto unico, speciale e che è essa stessa il vero motivo di acquisto e di riacquisto.

DALLE “4 P” ALLE “4 C”
Sono successe tante cose da quando nel 1967 il padre e guru del marketing, Philip Kotler, ha sintetizzato nell’acronimo “4 P” (prodotto, prezzo, punto vendita e promozione/pubblicità) l'essenzialità delle quattro variabili che sono utili alle aziende per raggiungere i propri obiettivi di posizionamento e di successo.
Ed infatti qualche anno dopo, vista la centralità del consumatore, le “4 P” sono state riclassificate da Lauterborn nelle “4 C”, spostando il focus dall’azienda al consumatore e alla sua esperienza. Così:
•    la prima P, cioè il prodotto, per l’azienda deve corrispondere a un valore, un progetto o una corrispondenza dell’efficienza per il cliente;
•    la seconda P, cioè il prezzo, è in realtà un costo per il cliente;
•    il punto vendita, fisico o virtuale che sia, si trasforma in convenienza;
•    la P della promozione si trasforma in comunicazione.

In questo modo il marketing cambia e rinnova il suo approccio.

QUINDI IL MARKETING È MORTO?
Nell’epoca di internet e del digitale, l’inbound marketing dovrà essere più centrato sull’essere trovati dai potenziali clienti, piuttosto che sul cercarli tartassandoli di email, call o pubblicità indistinte e generiche.