Noi e gli altri


Sebastiano Zanolli Sebastiano Zanolli

Dal volume N° 23

È SOLO UN GIOCO (e i giocatori siamo noi)

NON CONFONDIAMO IL MERCATO CON LA NOSTRA IDENTITÀ. NON LASCIAMO CHE LA CONCORRENZA SPIETATA O I PROBLEMI QUOTIDIANI STABILISCANO CHE VENDITORI SIAMO. SE CONOSCIAMO LE REGOLE, POSSIAMO DIVENTARE CIÒ CHE DESIDERIAMO

 

Trattare se stessi e il proprio nome come un marchio e applicare le categorie del marketing alla propria vita è una attività che negli ultimi anni ha trovato grande diffusione e pratica.

Non è strano. Quando i mercati sono alle strette e non hanno confini, se non quelli che metti tu, la competitività diventa parossistica. Qualunque cosa è un’alternativa ai miei prodotti e servizi, che sono in concorrenza con merci e prestazioni fino a ieri classificabili come innocue e ininfluenti per le mie vendite.

 

Come l’influenza aviaria si sposta dagli animali all’uomo, questa competitività si trasferisce dalle cose alle persone: siamo noi i prossimi a essere passibili di sostituibilità. Noi che credevamo di essere gli unici giudici, ora ci ritroviamo a essere giudicati.

Poco male per i venditori coscienti. Molto male per i venditori incoscienti, cioè quelli che non hanno cognizione di sè e del significato dei loro atti.

La gara è così spietata che l’asset, il patrimonio, la caratteristica più idonei da sfruttare, i meno imitabili e i più monetizzabili sono rappresentati dal nostro profilo personale.

 

Mosse di marketing... personale

Ecco allora la trasposizione di alcune mosse di marketing aziendale in campo personale.

Competenza. Sapere risolvere problemi reali.

Visibilità. Che la gente sappia che gli puoi risolvere questi problemi.

Network. Una rete che trasmetta le tue capacità e generi opportunità, connettendo domanda e offerta e magari stimoli nuovi livelli d’intervento.

Valore. Essere un punto di riferimento per un’audience definita e affogare tutto il movimento che produci nella vita reale e in quella digitale nella “glassa” dei tuoi talenti e dei tuoi tratti caratteriali più interessanti e marcati.

Personalità. Occultare punti di debolezza e porre l’accento sui punti di forza.

Storie. Saper raccontare in modo avvincente, credibile e motivante la tua storia individuale.

 

Con tutto questo, e altro, curi il tuo marchio personale.

Funziona. Ho visto i risultati, economici e di immagine.

Tra le tante invenzioni e panacee che il mercato consulenziale è costretto a mettere insieme con i più disparati acronimi e termini perlopiù inglesi, questi elementi funzionano davvero, e ci tengo a sottolinearlo.

Ma la piccola riflessione che vorrei tentare di fare in queste righe è un’altra.

Corre veloce verso l’alto.

Richiede un salto di grande portata.

Un salto di coscienza.

Vediamo se riesco a spiegarmi.

 

Un gioco spietato, ma sempre un gioco

Il mercato è un gioco, crudele e spietato, ma pur sempre un gioco. Frutto di regole, a volte comprensibili, a volte meno. In questo gioco noi siamo immersi totalmente, e per poter giocare adeguatamente, accettiamo che il gioco non sia un gioco, ma che sia la realtà data. Non c’è nulla di male in sè, ma confondere un’attività umana, creata per produrre risultati materiali ed economici, con il senso dell’esistenza ha in sè i semi di un possibile disagio. Un po’ come se Robert De Niro fosse ancora convinto di essere Travis Bickle, il ventiseienne alienato, depresso, tassista notturno di Taxi driver.

Noi, come donne e uomini, esistiamo al di là del mercato e dei mercati. Esistevamo prima ed esisteremo poi, come genere, come specie. Questi mercati sono una soluzione temporanea a un problema eterno per l’umanità: come sopravvivere materialmente in un ambiente più o meno difficile.

La soluzione attuale, il capitalismo e il libero mercato, sono estremamente produttivi per il benessere materiale e l’evoluzione e la diffusione del benessere fisico della specie. Permette potenzialmente anche a chi abita in Alaska o nel Sahara di vivere con dignità. Come fanno un termosifone o un condizionatore, alterano le condizioni date. Ma come sempre accade per qualcosa di artificiale, serve adattare chi deve giocare in modo che giochi bene, a mano a mano che la specializzazione cresce, allo stesso modo dei cani da combattimento o dei tori da corrida, dei canarini da competizione, dei gladiatori o dei cavalli da corsa.

Non vanno bene tutti.

 

I mercati, oltre a essere conversazioni, sono invenzioni umane. Il profilo dei giocatori anche.

Qui è il nodo.

Noi siamo qualcosa in più.

Siamo un passo più in là della nostra idea di noi stessi. Siamo un grumo di pensiero ed emozioni capace di ragionamenti, ma soprattutto di sensazioni e sentimenti. Siamo individui nati con una coscienza che permette di osservare il nostro pensiero. E il pensiero è la radice del mondo che abbiamo creato.

Siamo potenzialmente dei creatori di realtà. Ma a volte, spesso anzi, dimentichiamo e confondiamo causa ed effetto. Rovesciandoli.

Una via verso l’insoddisfazione, che ricordiamolo è il meccanismo chiave del gioco di mercato, è dimenticare che possiamo essere ciò che desideriamo, a prescindere da ciò che noi o altri crediamo di essere.

Capisco che sia un po’ complicato, ma è così importante, perché tutto parte dal pensiero, l’idea di noi, dei giochi da giocare, delle regole, dei meccanismi. E a volte dimentichiamo che i creatori di questa realtà siamo noi. La costruiamo a partire da ricordi, sensazioni, giudizi, conoscenze, ma è pur sempre solo una tra le innumerevoli possibilità.

Se domani decidessimo di essere felici con altre regole, potremmo farlo. Quando ci scordiamo di questo particolare, arriviamo a pensare che il gioco, la realtà, le circostanze siano più reali di noi.

Siamo enormemente più grandi e potenti del gioco che abbiamo messo in piedi. Come De Niro è enormemente più potenziale di Travis Bickle, che è solo una delle facce che può assumere o non assumere.

 

Ecco. Il personal branding è uno strumento per giocare meglio al gioco, non per sostituirsi alla nostra esistenza più alta.

Infondere la nostra personalità nella competizione economica funziona in termini di risultato.

Punto.

Non soddisfa la voglia di crescita personale, di essere persone che volano più in alto per comprendere quale sia il destino che ci attende dopo questo passaggio sul pianeta. Non dà risposte alla domanda: “Chi sono io in realtà, al di là del mercato?”, ma a un’altra domanda sì: “Chi devo essere io per funzionare bene nel gioco?”.

Visto che mi ritrovo di frequente in aula a parlare di personal branding, devo marcare questo fatto, perché qualcuno fa confusione, e si espone a un pericolo grande: essere qualcosa che è solo una tra le mille possibilità e rimanerci incastrato per tutta la vita, in un impeto di costretta coerenza.

Drammatico.

 

Per cercare la felicità, si devono affrontare le domande alte e poi, strumentalmente e sapendo che tutto è una commedia che sembra quasi reale, affrontare le domande più materiali.

Le prime riguardano lo spirito, l’anima, o qualunque nome si voglia dare a quel qualcosa che è prima di noi e delle nostre invenzioni.

Le seconde sono le domande che ci servono per vivere, per portare a casa il pane, mantenere i figli a scuola o andare in vacanza.

È fondamentale non confondere i livelli e cercare di fare il meglio su ambedue i fronti.

Non siamo solo quello che vogliamo dimostrare sul mercato. Lì si pratica una parte, si ricopre un ruolo. Recitiamo pure, e bene, godendoci i frutti dell’agonismo di mercato.

Ma non fermiamoci lì.

Abbiamo un avvenire più grande, se solo alzeremo lo sguardo per vedere le infinite strade che possiamo disegnare senza l’aiuto delle regole.