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Valeria Tonella Valeria Tonella

Fai quello che puoi con quello che hai: i vichinghi e l'Islanda

 

DIARIO DALL’ISLANDA: UN PAESE DIVENTATO CASE STUDY, USCITO DALLA BANCAROTTA GRAZIE AL TURISMO E A UN INDOMITO TALENTO PER LA VENDITA


Gli islandesi non sono un popolo che porta la crisi scritta in faccia. Quando, nel 2008, il Paese era sull’orlo della bancarotta, con le banche che incassavano da oltreoceano il colpo del fallimento Lehman Brothers e il Pil in caduta libera, nessuno prospettava una ripresa, tanto meno una ripresa rapida. Ma ci si misero il sangue vichingo, e la capacità di navigare il mare in burrasca. Un istinto che si tramanda da secoli.

Negli ultimi anni il mondo impazzisce per quest’isola di 300 mila
abitanti (150 mila solo nella capitale Reykjavik). Perché l’Islanda, non si sa bene come, si rimette in piedi.

Stropicciata, sì, ma gagliarda.

Il Sole 24 Ore parla di “ricetta anti crisi”… da esportare anche in Italia? Panorama presenta un piano economico che forse potrebbe servire anche al nostro Bel Paese… se solo non avesse 60 milioni di abitanti, e non 300 mila, e se politica e finanza riuscissero negli stessi intenti. Alcune scelte hanno letteralmente tirato fuori l’Islanda dal fango: sottrazione di fondi speculati per il pagamento dei mutui delle famiglie, rifiuto di socializzare i debiti delle banche private, un testo costituzionale scritto online con i consigli della popolazione… e altri meccanismi che qui non ci competono, ma da cui partiamo per raccontare una bella storia.

Sono stata in Islanda con alcuni amici.   Decidiamo di prenotare il viaggio per l'estate. I risparmi sono quelli che sono, ed è meglio muoversi con anticipo. Molti diari di bordo online elogiano l’isola del ghiaccio e del fuoco, popolata, oltre che da impavidi cittadini che la Costituzione se la fan da sé, anche da balene, foche e pulcinelle di mare. Isola di montagne, geyser e terra che ribolle come acqua in pentola.

Sbrighiamo i preparativi in poco tempo. Ci hanno avvisato: le strutture ricettive sono poche, la stagione turistica breve, almeno quella estiva. Da giugno a metà agosto, non di più. Lì non si può sperare che “faccia bello a settembre”: come in estate ci sono 20 ore di luce, così in inverno la situazione si capovolge, il buio prende il sopravvento, il ghiaccio ricopre tutto, e ci sono solo le aurore boreali ad abbellire una terra nera, lunare e completamente vulcanica che non ha nulla da offrire. Né coltivazioni né stabilimenti balneari: solo spartane “guesthouse” di legno in stile bungalow e ostelli popolati da viaggiatori di ogni nazionalità.

Decidiamo che anche noi, per dieci giorni, faremo parte di questo crogiolo umano, che sfida la natura del Circolo polare artico per qualche foto, carne di squalo essiccata e maglioni di lana. Pensavano che sarebbe andata “solo” così. E invece l’Islanda ci ha sorpreso.

Una pesca miracolosa…

Economicamente parlando, l’Islanda può contare su due cose: la pesca e il turismo.
Gli islandesi vantano almeno un capitano Achab per famiglia, e anche il più piccolo villaggio ha un porto a cui sono agganciate, come giocattoli, bar-che e navi che tagliano i flutti freddi. Per molti, quasi tutti, la pesca è vita, vita quotidiana: a nord, in uno dei fiordi più soleggiati, c’è questo grumo di case, Dalvik, che forse non sarebbe neanche segnato sulla cartina geografica, se non fosse che ogni anno in agosto si tiene il “Great fish day”: una grande, immensa festa del pesce, con banca-relle, concerti e mostre fotografiche. È la celebra-zione del mare. Le maggiori aziende ittiche del-la zona aprono alla gente le porte dei capannoni dove solitamente stivano il pescato (si parla, per l’intera Islanda, di 1 milione e mezzo di tonnellate annue). Al “Great fish day” vengono preparati dei banchetti e si offrono, a chiunque passi di lì, assaggi di pesce… gratis. Primi piatti, hamburger, crudi, abbeverati da centinaia di bottiglie di Coca Cola, main sponsor… tutto gratis. Un’operazione di marketing e di vendita ingegnosa, oltre che una deliziosa tradizione. Anche se non è l’unica inizia-tiva peculiare di questi moderni vichinghi, che, per dire, in giugno organizzano tornei di golf ad Akureyri, seconda città d’Islanda, a due passi dal Circolo artico, sotto il sole di mezzanotte…

… e il “miracolo” del turismo

Veniamo al turismo. A partire dal 2008, l’Islanda ha avviato un progetto di rivalutazione e conservazione dell’isola finora inaudito per questo Paese.
Poche altre regioni al mondo vantano una tale varietà di lingue glaciali, zone geotermali e scenari naturalistici, e l’idea, da qualche anno, è quella di puntare tutto sulla istituzione di parchi nazionali (il più grande – d’Islanda e d’Europa – è ampio 12 mila chilometri quadrati) e sul “disegno” e la manutenzione di percorsi di trekking, con Centri di accoglienza, Punti info e attività collegate per i gusti di tutti (sci su ghiaccio, rafting, arrampicata, cavalcate, bird e whale watching).

Pensavamo di trovare il nulla. Abbiamo trovato tutto.


Il richiamo dei turisti

Nel 2010, l’Islanda ha accolto oltre 714 mila turisti, più del doppio della popolazione locale, a tal punto che oggi il turismo è il settore che, dopo la pesca, contribuisce maggiormente al Pil, con il 4,5%. L’obiettivo è di raggiungere il milione di turisti entro il 2020, attraverso la destagionalizzazione del turismo e una più ampia distribuzione dell’offerta turistica sull’isola (dati Eurostat e Statistical bureau of Iceland).

Non era così, prima della crisi, e alcuni abitanti ce lo hanno confermato. Tanto che, nel 2012, ci fu anche una polemica, fatta scoppiare da un parlamentare, che vedeva in questa crescita un pericolo: “Gli islandesi che vogliono prendersi un caffè non possono farlo perché i caffè sono pieni di turisti. E le cascate? Chi riesce più a vederle con quella orda di gente?”.

Che cosa ha richiamato così tanti turisti? Un luogo comune voleva, infatti, che l’Islanda fosse costosa per i viaggiatori. Dopo la crisi del 2008, il tasso di cambio della corona islandese è stato deprezzato, ma negli ultimi cinque anni i prezzi sono innegabilmente risaliti. La cosa interessante sta nel modo in cui gli islandesi hanno creato delle alternative. Prendiamo il cibo: un’alternativa al “mangiar fuori” è costituita dalle catene di supermercati abbastanza convenienti o dai mercati contadini dove ci si può rifornire di qualunque cosa (grazie alle importazioni); ma la politica vincente è stata quella di dotare tutte le guesthouse e gli ostelli, anche quelli più familiari, di cucine (condivise o private) sempre ben attrezzate. Un investimento diffuso, un cambio di mentalità rispetto al passato, che prevedeva poche comodità per il turista. Oggi, invece, è veramente difficile non riuscire a imbastire una cena come si deve con poche corone a testa.

Vendere accoglienza

Ed ecco un altro punto: le strutture ricettive. Gli islandesi hanno vissuto per secoli la solitudine e l’isolamento, soprattutto durante l’inverno. Ora, lì dove prima sorgevano fattorie nebbiose o poche case sbatacchiate dal vento, i turisti trovano due o tre (non di più) piccoli cottage arredati a nuovo e forniti, come si dice, di tutti i confort: angolo cottura, biancheria e… internet. Internet ovunque. Quasi uno slogan. Come facciano i modem a col-legarsi, in quelle lande deserte, non lo abbiamo mai capito.

Un aneddoto: a metà del viaggio, alloggiamo da un fattore da noi soprannominato Santa (Klaus) per la barba copiosa. Siamo sempre al nord, la densità della popolazione per metro quadrato è inferiore a quella delle pecore, e Santa ci affitta una parte della sua casa. Lo scenario è immagi-nabile: cavalli, galline, nebbia… ma il wi-fi ci dà il segnale sufficiente per “navigare” in tranquillità. Al momento del pagamento, poi, Santa estrae un lettore di carte di credito manuale, di quelli che funzionano a pressione, per intenderci. Un reperto storico, non saprei definirlo altrimenti, che denota un innegabile spirito di adattamento: con i turisti arrivano anche le carte di credito, e serve qualcosa per leggerle. Detto, fatto. Anche il barbuto Santa si adatta ai tempi.

Ti do credito

Tutto in Islanda è pagabile con carta di credito, dal pernottamento alla cena, al “kaffi” (caffè espresso) acquistabile nel deserto di pietre nere, al centro dell’isola, dove si rifugiavano i criminali per scappare alla legge.

Una contromisura alla recente crisi? Ogni transazione è tracciabile e i clienti pagano senza pensare troppo a procurarsi le banconote. Alla fine, diventa un gesto automatico: “strisci” ed è rassicurante non vedere facce di commessi imbronciati perché vuoi pagare con la carta e crei loro chissà quale disagio. Una comodità a cui, quando torni a casa, è difficile rinunciare.

Yep, I speak English

“Yep, I speak English” ci ha detto Santa (Klaus) quando lo abbiamo incontrato.
Tutti in Islanda parlano l’inglese. E con tutti, intendo tutti, anche i (quasi) centenari. L’inglese, assieme al nuoto, è materia obbligatoria fin dai primi anni di scuola. Quando siamo partiti, eravamo preoccupati per la lingua (il nome del vulcano che ha eruttato nel 2010, l’Eyjafjallajökull, è una delle parole più facili da pronunciare); dopo qualche giorno, abbiamo capito che gli islandesi hanno risposto alla crisi anche così, internazionalizzandosi, per poter ricevere bene i turisti e facilitare le relazioni. Cosa, fino a una decina di anni fa, impensabile.

L’attenzione ai dettagli

La valorizzazione del turismo in Islanda passa at-traverso l’attenzione ai dettagli: i percorsi di trekking perfettamente tenuti, nonostante l’azione del vento e del freddo (in molte zone sono segnalati in base alla difficoltà e nei punti più critici sono pavimentati); l’offerta per le famiglie con bambini (chi penserebbe a un viaggio in Islanda con famiglia? Invece ci sono 170 pozze termali, maneggi per cavalli e percorsi naturalistici con cartelli colorati a dire il contrario). Le maggiori attrazioni turistiche, dalle cascate ai geyser, sono munite tutte di punti informativi e camminamenti.

Fai quello che puoi, con quello che hai Perché ho voluto raccontarvi l’Islanda? Cosa ha a che vedere con la vendita?

Campanilisti e nazionalisti, gli islandesi non hanno perso tempo a maledire la natura o la crisi: hanno saputo aprirsi al mondo. Come disse qualcuno, il sangue vichingo non è acqua. Parliamo di un popolo che ha scelto di vivere ai limiti del mondo abitabile. Un popolo, per la maggioranza, in fuga da avide monarchie e alla ricerca di una terra lontana ma soprattutto libera. Dai padri vichinghi, gli islandesi hanno appreso radici e tradizioni, e hanno ereditato un coriaceo spirito di adattamento: secoli di lotta per la sopravvivenza contro gli elementi della natura, di navigazioni che li portarono, ben prima di Cristoforo Colombo, a mettere piede in America e a colonizzare il Nuovo mondo (fatto ormai dimostrato); e oggi trovi un popolo sì, dal carattere informale e a volte acerbo, ma in fondo ospitale, “effervescente” con garbo, che ha preso la natura “per le corna”, senza mancarle mai di rispetto. L’ha tutelata per renderla un’attrattiva.


L’insegnamento è: usa le risorse che hai, come puoi. E così la lana delle pecore non è più solo un rimedio al freddo, ma un business, l’acqua potabile è così buona e pura da essere abbondantemente esportata, e l’85% delle case e delle serre viene scaldato con la geotermia. Questa natura, la stessa che mette alla prova, diventa una fonte di profitto, e trasmette il principio del benessere (gli islandesi sono tra i più popoli più longevi d’Europa, e ne hanno fatto una campagna commerciale: vieni in vacanza da noi e starai bene, anzi meglio).


Se deciderete di andare in Islanda, troverete case con il tetto di torba, autostrade mai costruite per non disturbare i folletti, bionde ragazze che danzano salutando il solstizio. Ma troverete anche persone fiere e piene di iniziativa, tecnologizzate e proiettate nel mondo moderno.